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Crescita economica, lavoro e sistema pensionistico: l’urgenza di cambiare gli impatti una demografia in declino

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Nel prossimo futuro, il mercato del lavoro sarà caratterizzato sempre più da lavoratori in età avanzata e un minor numero di lavoratori giovani: se, da un lato, vi è la necessità di ripensare la vita lavorativa all’interno delle aziende in presenza di più generazioni con cultura, linguaggio e approcci al lavoro differenti, dall’altro ci si aspetta che in presenza di personale dall’età più avanzata, si prendano in considerazione le esigenze che le nuove dinamiche demografiche e la longevità richiedono.

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Se infatti sin qui i “nonni”, ormai sgravati dall’impegno lavorativo, hanno potuto occuparsi dei figli dei propri figli, in futuro questa condizione verrà meno sia per effetto del calo della natalità, che a causa della rivalutazione dell’età pensionabile in linea con l’aspettativa media di vita.

Gli impatti del declino demografico sul lavoro e sull’economia

I cambiamenti demografici si apprestano così a ridefinire le esigenze delle persone e delle famiglie, del mondo del lavoro e delle aziende, ma non solo: in assenza di politiche che favoriscono la genitorialità, la possibilità di conciliare le esigenze lavorative e quelle familiari, considerando una composizione famigliare che si allontana dalla visione tradizionale a cui si era abituati (se, da un lato, si evidenzia un aumento delle famiglie unipersonali, dall’altro ci si troverà sempre più in presenza delle cosiddette famiglie allargate, con anziani anche non autosufficienti di cui prendersi cura e figli avuti da altre relazioni rispetto la coppia), l’intera economia subirà le conseguenze dei nuovi trend. L’economia italiana è di fatto un’economia già stagnante, con una crescita prossima allo zero: la diminuzione della popolazione porta inevitabilmente a una riduzione del numero di consumatori e di persone in età lavorativa, e di conseguenza ad una diminuzione della ricchezza complessiva. L’Istat ha stimato che nel 2070 si prevede un calo fino a circa 1.200 miliardi di euro, corrispondente a una diminuzione del 32% del PIL a causa dei cambiamenti demografici: questa diminuzione rappresenta una significativa perdita di ricchezza, rendendo più difficile sostenere le spese per pensioni e sanità che, a causa dell’invecchiamento della popolazione, tendono ad aumentare.

Per favorire una nuova energia che consenta al Pil di tornare a crescere per garantire nuovo benessere sociale, servono sia politiche che creano le giuste condizioni volte ad agevolare anche quelle categorie di persone oggi escluse, sia fare i conti con trend che difficilmente si potranno invertire e porre già oggi le basi per un vantaggio competitivo.

L’urgenza di politiche che favoriscano il lavoro

Il sistema pensionistico, così come è strutturato e con le condizioni del mercato del lavoro attuali non può reggere: favorire l’inserimento nel mercato del lavoro a quelle categorie oggi ancora marginalmente escluse potrebbe contribuire alla tenuta del sistema. Sempre più giovani scelgono di posticipare il loro ingresso nel mercato del lavoro per dedicarsi agli studi, dopo il secondo figlio solo una mamma su due continua a lavorare e spesso sono le donne ad occupare i ruoli di cura all’interno delle famiglie, condizione che porta spesso alla richiesta di una riduzione di orario o all’abbandono del posto di lavoro. Il gender pay gap è un problema che si riflette anche sulle pensioni e oggi si evidenzia un divario pensionistico che ammonta a 40 miliardi di euro: salari più bassi e carriere lavorative intermittenti influenzate da esigenze di maternità e cura determinano condizioni per la pensione più sfavorevoli. L’uso diffuso di contratti part-time contribuisce al mantenimento di questa disparità anche nel settore pubblico. Nonostante le donne siano in maggioranza tra i pensionati, ricevono solo il 44% delle pensioni totali, mentre i loro stipendi medi sono inferiori di circa il 40% rispetto a quelli degli uomini. Lo ha evidenziato la prima analisi Inps sui divari di genere presentata a Roma nei giorni scorsi.

Andrebbe rivalutato il ruolo dell’immigrazione per dare nuova energia all’economia, in previsione di un aumento della prospettiva di vita e in corrispondenza del drastico calo delle nascite: favorire i flussi di immigrazione regolare significherebbe contare sulla tenuta contributiva e supportare la natalità.

Intelligenza artificiale, luci e ombre

Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che circa il 40% dei posti di lavoro globali subiranno conseguenze legate allo sviluppo dell’intelligenza artificiale; per i Paesi più avanzati economicamente, pare l’impatto possa raggiungere anche il 60%: in alcuni settori si tradurrà in una diminuzione delle ore lavorative richieste o delle assunzioni. L’intelligenza artificiale contribuirà ad alimentare le disuguaglianze sociali e, a farne le spese, saranno quei lavoratori i cui settori o professioni non vedranno l’applicazione della tecnologia. L’intelligenza artificiale, però, genererà un impatto positivo sulla produttività e sull’economia: si stima che in Italia il Pil potrebbe crescere fino al +18% (+312 miliardi di euro). Uno studio congiunto di Microsoft e European House Ambrosetti ha evidenziato un aumento della produttività prossimo al 20% per settori quali agricoltura e edilizia, +20-25% per educazione, commercio, pubblica amministrazione e servizi professionali e oltre il 25% per aziende finanziarie e digitali. Oltre all’aumento della produttività, l’AI potrà compensare anche la perdita di posti di lavoro legati ai nuovi trend demografici, che da qui al 2040, si stima porteranno ad una perdita di circa 267 miliardi. Per poter sfruttare i vantaggi dell’intelligenza artificiale serve però che l’Italia investa sulla digitalizzazione delle imprese, soprattutto le PMI e in formazione. Sulla formazione è molto importante evidenziare l’esigenza di puntare ad un percorso di conoscenza che accompagni gli individui in tutte le fasi della vita, per poter essere sempre competitivi in un mercato che, peraltro, sarà sempre più carente di forze giovani.

La relazione salari e crescita economica nelle pensioni

Crescita economica e lavoro sono strettamente connessi: è impensabile puntare ad un aumento della produttività senza un mercato del lavoro solido e, al contrario, di fronte ad un’economia sana, che cresce, è più probabile che i lavoratori possano contare su condizioni di lavoro e salari dignitosi. Il Rapporto Inapp 2023 ha evidenziato un fatto preoccupante: i salari dei lavoratori italiani sono rimasti sostanzialmente stagnanti negli ultimi trent’anni, con un aumento minimo dell’1% tra il 1991 e il 2022, un dato è in netto contrasto con la tendenza negli altri paesi dell’OCSE, dove i salari medi sono aumentati in media del 32,5% nello stesso periodo.

Il dato diventa particolarmente allarmante anche in relazione al sistema di determinazione delle pensioni individuali. Con il sistema contributivo, infatti, ogni lavoratore ha un proprio conto individuale dove vengono accumulati i contributi previdenziali versati nel corso della sua carriera che direttamente dipendenti dal proprio salario. Non è tutto, però. La pensione che il lavoratore riceverà, sarà determinata sì dalla somma dei contributi versati, ma che saranno capitalizzati in base alla media quinquennale del PIL nominale e moltiplicati per un coefficiente di trasformazione stabilito dalla legge, il quale varia a seconda dell’età del lavoratore al momento del pensionamento. È evidente che l’entità dell’assegno pensionistico futuro dipende notevolmente dall’andamento del PIL e il criterio di rivalutazione del montante previdenziale si basa su una costante crescita del PIL: solo se il PIL aumenta, infatti, anche il tasso di rivalutazione, calcolato come media della crescita del PIL su cinque anni, sarà positivo.

La determinazione della rendita pensionistica individuale si aggiunge ad un altro tema dalla complessità non indifferente, che riguarda la tenuta del sistema a ripartizione: nel sistema pensionistico italiano, le rendite da versare agli anziani pensionati sono corrisposte dai contributi versati dei lavoratori attivi. Venendo meno le condizioni della piramide demografica, questa sarà un’ulteriore questione sfidante che imporrà adeguate politiche per permettere che il sistema continui a funzionare. Anche per questo motivo è importante che i risparmiatori si dotino di un assegno complementare.

TFR, fondi pensione negoziali e previdenza complementare

Con la prospettiva di un assegno pensionistico che non può assicurare il mantenimento dello stile di vita avuto durante la fase lavorativa e, in previsione di nuove esigenze di assistenza e cura, un’accurata pianificazione finanziaria e previdenziale diventa fondamentale.

Una fra le principali questioni sottoposte ai lavoratori in sede di assunzione riguarda il mantenimento delle quote di accantonamento del trattamento di fine rapporto di lavoro in azienda, o la destinazione in un fondo pensione. Se in passato il trattamento di fine rapporto rappresentava un cospicuo tesoretto al quale attingere con l’avanzare dell’età, oggi con il calo della durata dei rapporti di lavoro, le somme che i dipendenti ricevono come trattamento di fine rapporto sono sempre più basse e, se non rinvestite, rischiano di diventare il cuscinetto d’emergenza dal quale, prima o poi si attinge e quindi difficilmente saranno disponibili per il futuro.

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E’ inoltre bene ricordare, in una fase di valutazione, che l’importo complessivo del TFR viene ricalcolato applicando il coefficiente di rivalutazione che, oltre ad un tasso fisso, dell’1,5%, considera anche le variazioni in base all’andamento dell’indice dei prezzi al consumo. Attualmente, i lavoratori che aderiscono ad un fondo pensione negoziale possono beneficiare di sgravi fiscali sottoforma di deduzioni in busta paga; il rendimento dei fondi pensione negoziali è determinato dalla forma di gestione degli investimenti e dalle linee di investimento definite sulla base del livello di rischio dell’aderente.

Nell’ultimo confronto disponibile di Covip, si evidenzia che i fondi pensione di categoria hanno riportato, in media, rendimenti simili al TFR nel corso degli ultimi dieci anni, anche se la differenza di performance dipende principalmente dalla strategia di investimento adottata. Nel corso del 2023, il rendimento netto del TFR si è attestato all’1,6%, mentre i fondi pensione negoziali, ovvero i fondi gestiti privatamente da categorie professionali specifiche, hanno registrato in media un rendimento del 6,7% al netto di spese e imposte.