Mercati vs contagi
L’esplosione del Coronavirus in diversi continenti sta oggettivamente aumentando le probabilità di una recessione nel 2020, ovvero di una fase di mercato contraddistinta da almeno due trimestri con una crescita del PIL (e con ogni probabilità degli utili aziendali) negativa. Gli indici azionari sono rapidamente crollati nella settimana dal 24 al 28 febbraio sui timori di una esplosione dei contagi a livello mondiale e, soprattutto, di un prolungato e generalizzato calo dei consumi. Nondimeno chi come professione analizza i mercati, dovrebbe sempre cercare di valutare le prospettive future cercando di “normalizzare” le principali criticità. Nel caso attuale, nonostante un vero bollettino di guerra come emerge dal sito https://www.worldometers.info/coronavirus/ che fornisce in tempo reale numero di casi, di decessi e di ricoverati sia in termini assoluti che per singolo paese, è razionale ripercorrere le situazioni analoghe del passato per avere dei criteri che possono dare dei ragionevoli parametri su cui basarsi.
Piccolo, medio o grande rischio?
Come sappiamo i mercati finanziari sono estremamente cinici. Anche un evento serio come Coronavirus diventerebbe secondario nel momento in cui il mercato dovesse iniziare a stimare una strutturale riduzione dei contagi e/o fosse annunciato un vaccino. Analogamente, anche un consistente rialzo delle temperature che potrebbe avvenire da aprile in avanti, insieme a tutte le misure messe in atto dai governi a livello globale, potrebbe aiutare a circoscrivere rischi e timori. Un esercizio da fare è datare le principali pandemie o epidemie dell’ultimo ventennio (influenza suina, aviaria, Sars, Ebola etc…), ed analizzare l’impatto sull’S&P500 nei mesi successivi all’esplosione dei primi contagi. A parte l’HIV che risale al 1981, in tutti i casi (tranne il morbillo del 2014) la performance dell’indice a sei mesi dall’esplosione dei contagi è stata generalmente molto positiva. In alcuni casi a 12 mesi è stata abbondantemente a doppia cifra. La Sars che è ritenuta molto più letale del Coronavirus tra l’altro arrivò in una fase di mercato particolarmente negativa, partita nel 2000 con il crollo della tecnologia prima e poi con l’11 settembre. Analogamente, la febbre suina esplose nel 2009. In entrambi i casi la capacità di sopportazione degli investitori era perciò molto più bassa in termini assoluti rispetto a quella attuale, perché venivano da timestri contraddistinti da performances azionarie molto negative.
Il caso Coronavirus
Nel caso specifico di Coronavirus si potrebbe vedere il lato opposto rispetto alla SARS, ovvero che allora le valutazioni allora erano molto basse a differenza di quelle attuali. Tuttavia, non è difficile ricordare quanto fosse basso il morale degli investitori nel 2003 e nel 2009. L’azionario della Cina, che per prima ha individuato il virus in gennaio, ha avuto per il momento un andamento coerente con il passato. In febbraio nella fase di panico delle economie piu industrializzate, a fronte di un numero di contagi apparso in riduzione e soprattutto sotto controllo, l’indice ha decisamente sovraperformato stabilizzandosi in un trading range più contenuto. Soprattutto, non si è nemmeno avvicinato ai minimi toccati nei due giorni successivi all’individuazione dell’emergenza. Pur considerando che nella situazione attuale c’è sicuramente una maggiore diffusione a livello geografico in un contesto molto più globalizzato rispetto al passato, non possiamo non sottolineare come in passato ad una prima reazione anche molto negativa del mercato segue poi un relief rally anche molto violento in tutti i casi in cui il pericolo è stato circoscritto ed isolato.
Conclusioni
La presente nota sottolinea come la reazione degli indici azionari alle grandi epidemie degli ultimi venti anni sia concentrata soprattutto nelle prime settimane dei contagi e della diffusione a livello globale. E’ impressionante il cinismo mostrato dal mercato trattando in maniera diversa le economie industrializzate dai mercati emergenti, ma è anche vero che la concentrazione del PIL mondiale in pochi paesi li rende in questa ottica più rilevanti agli occhi degli investitori per il calcolo delle prospettive future. Detto ciò, praticamente in tutti i casi indipendentemente dalla velocità dei contagi e dal tasso di mortalità, nei mesi successivi gli indici azionari sono tendenzialmente più alti della fase precedente all’individuazione del virus. La spiegazione è probabilmente legata ai grandi sforzi che autorità e aziende farmaceutiche immettono dopo avere individuato la criticità, che di fatto rassicura gli investitori che già si proiettano in una fase di mercato successiva. Analogamente, i grandi timori di recessione che innegabilmente si vengono a creare con i primi contagi vengono gradualmente ammorbiditi sia a fronte di un contenimento del problema magari a fronte anche di un vaccino, sia a fronte dell’azione congiunta delle banche centrali. L’obiettivo di questa nota non è certamente quello di spingere gli investitori ad assumere maggiori rischi in una fase di mercato estrememente incerta, quanto quello di analizzare cosa è accaduto storicamente una volta che si dovesse cominciare a circoscrivere il problema. In altre parole, siamo convinti che un atteggiamento prudente sia ragionevole, ma paradossalmente potrebbero a nostro avviso esserci maggiori rischi nelle elezioni presidenziali statunitensi che nel Coronavirus, soprattutto se davvero un vaccino dovesse arrivare sul mercato nelle prossime settimane come annunciato da alcune società farmaceutiche.