Da poco tempo i fondi pensione sono diventati uno strumento previdenziale piuttosto conosciuto anche nel nostro Paese a seguito delle recenti e ben note normative in tema di risparmio previdenziale. Conoscenza non è però sinonimo di comprensione dello strumento, né delle ipotesi ‘accademiche’ ed empiriche che sono alla base delle logiche gestionali e commerciali degli stessi fondi pensione.
Se da un lato lo strumento ‘fondo pensione’ è utilizzato da decenni nei Paesi di stampo anglosassone con un’ottica di lungo periodo e con una potenza di fuoco in termini di rilevante (in termini di masse gestite), gli avvenimenti sui mercati azionari nell’ultimo decennio hanno messo a dura prova le logiche finanziarie che sono alla base della loro esistenza e della loro gestione. Ultimamente, un articolo pubblicato sull’ultimo numero del Journal od Indexes a cura di Robert Arnott (Bonds: Why Bother? – Journal of Indexes – May/June 2009) potrebbe rimettere in discussione uno dei cardini su cui si è basata finora l’esistenza dei fondi pensione, e cioè il concetto ben noto in finanza dell’esistenza di un premio al rischio (risk premium) positivo per coloro che investono in azioni rispetto alle obbligazioni.
Infatti, negli ultimi 30 anni, sia nel mondo accademico che in quello gestionale, è maturata la convinzione, supportata da diverse ricerche empiriche, che l’investimento nel lungo periodo nel comparto azionario, con un orizzonte temporale di 20/30 anni, possa generare in termini reali un extra rendimento del 4/5% rispetto all’investimento obbligazionario. Tale differenza, nota come risk premium, è anche alla base della costruzione e della gestione delle linee a rischio medio e medio/alto dei fondi pensione, consigliate ai lavoratori in età lavorativa relativamente giovane, o comunque, con davanti ancora diversi anni di versamenti contributivi.
La logica è appunto quella che, poiché in media nel tempo l’asset class azionaria si è dimostrata più performante di quella obbligazionaria, chi ha ancora davanti a sé diversi anni lavorativi, ha una maggiore convenienza nell’investire in azioni che obbligazioni. L’articolo di Arnott va proprio nella direzione opposta e mette in evidenza come l’esistenza di un premio per il rischio del 4/5% sia solo illusoria. Per la verità, già nel 2001 Arnott, insieme a Ronald Ryan, scrisse un articolo (‘The Death of the Risk Premium’, ‘La morte del premio per il rischio’ Journal of Portfolio Management 27 No 3 – Spring 2001) dove anticipava la fine del vantaggio in termini di rendimento dell’asset class azionaria su quella obbligazionaria.
L’articolo fu pubblicato proprio prima dell’inizio della scoppio della bolla speculativa del 2001 e gli autori stimarono un risk premium per i successivi decenni pari allo -0,9% (rispetto al 5% circa di quello atteso in base alle medie storiche). Le cause di questa revisione al ribasso stavano soprattutto nella diminuzione dei dividendi attesi dei titoli azionari (non controbilanciata da un aumento della pratica dei buy backs) e della crescita degli utili aziendali che non potevano crescere all’infinito per un tasso superiore a quello dell’economia. Il campanello d’allarme lanciato dai due autori (per lo più rimasto inascoltato sia dal mondo accademico che da quello dei professionisti del risparmio gestito), è stato pertanto quello di una possibile e strutturale sottoperformance dell’asset class azionaria rispetto a quella obbligazionaria, con notevoli impatti sui rendimenti attesi dei fondi pensione.
Però, nell’ultimo articolo pubblicato sul Journal of Indexes, Arnott va ben oltre e, dati alla mano, dimostra come nel periodo 1979/2008 un investitore che avesse investito continuamente in titoli governativi ventennali (reinvestendo ogni volta anche le cedole) avrebbe ottenuto rendimenti in termini reali superiori a quelli di un investitore che avesse investito nell’S&P500, e questo è vero qualunque sia l’anno di partenza nel periodo 1979/2008.
In definitiva, negli ultimi 40 anni, il premio per il rischio è scomparso. Sicuramente ha contribuito la cosiddetta ‘lost decade’ (il decennio perduto), in quanto dal 1997 ad oggi il comparto azionario ha performato decisamente male, ma un’analisi dei dati dei mercati statunitensi degli ultimi 207 anni conferma quanto detto per gli ultimi 40 anni. Infatti, dal 1802 al 2009 il mercato azionario statunitense ha vissuto momenti di euforia alternati a periodi di forti ribassi e spesso ci sono voluti decenni per recuperare in termini reali le perdite accumulate. Ad esempio, focalizzandoci solo sul secolo scorso, al mercato statunitense ci sono voluti 22 anni per recuperare i minimi del 1906 (dal 1906 al 1928), 30 anni per recuperare il crash del ’29 (dal 1929 al 1959) e 28 anni dopo i minimi del ’65 (dal 1965 al 1993).
In definitiva, l’investitore di lungo periodo, come quello nei fondi pensione, si trova a dover affrontare un nuovo nemico ed è quello del ‘timing’, cioè del giusto momento dell’investimento, in quanto investire nel momento sbagliato, un lungo orizzonte di investimento può essere utile solo per recuperare il capitale investito in termini reali. Il problema è sicuramente molto attuale, basti pensare ai rendimenti dei fondi pensione del 2008, ma soprattutto la problematica investe la gestione dei fondi pensione stessi in quanto un premio per il rischio atteso negativo comporta:
– Ipotesi troppo aggressive sui tassi di rendimento attesi nei cash flow
– Una rivisitazione nelle tecniche di asset allocation dei fondi pensione stessi, con ‘forme’ delle frontiere efficienti non più coerenti con quelle sinora utilizzate.
Sicuramente la problematica è stata affrontata sinora solo in maniera marginale, ma, data anche la rilevante valenza sociale della stessa, con ragionevole certezza si può affermare che il dibattito è solo all’inizio.
Corrado Bei