L’indicatore price/earning mette in rapporto il prezzo di un titolo con l’utile netto per azione. Tale utile può essere rappresentato sia dall’utile netto maturato negli anni precedenti (da verificare con l’analisi della serie storica), sia da quello atteso per gli anni futuri.
Indica al numeratore il prezzo pagato per acquistare il titolo, e al denominatore quanto questo titolo ha reso nel periodo considerato. Per cui se il prezzo pagato è 30 euro e il dividendo 15 il risultato finale sarà 2 che significa che l’investitore impiega 2 anni per tornare in possesso dei 30 euro investiti inizialmente (15 euro di dividendo dell’anno 1 + 15 euro di dividendo dell’anno 2). Questo concetto è molto teorico, infatti difficilmente una società mantiene costanti i suoi dividendi.
Esistono diverse modalità per la determinazione del prezzo dell’azione che verrà utilizzato nelle valutazioni. Le più importanti sono fondamentalmente due: la prima utilizza il “prezzo di riferimento” (ovvero il prezzo medio ponderato di mercato dell’ultimo 10% della quantità trattata del titolo considerato), la seconda il “prezzo medio” in un arco di tempo considerato interessante per l’analisi condotta (al fine di eliminare gli entusiasmi o le depressioni di un unico giorno di borsa).
È difficile dire se un p/e è alto oppure basso. Infatti, sono numerosi i fattori che devono essere presi in considerazione tra cui il settore di riferimento e l’andamento delle borse. Un p/e alto, maggiore di 20, può indicare, per esempio, in prima approssimazione una sopravvalutazione del titolo. Per un’analisi più approfondita, però, è necessario confrontare il risultato con le medie storiche (per esempio i tassi di crescita dell’azienda negli ultimi anni) e con le aziende che appartengono alla stessa industria in modo da avere una visione più chiara del titolo considerato.
Anche in questo caso, però, si potrebbero avere dati distorti. La ragione è riscontrabile nel fatto che il p/e medio settoriale è il risultato di una semplice media aritmetica dei valori delle società che fanno parte del settore. Se il numero delle imprese non è elevato, anche pochi valori che si discostano in maniera significativa dalla media causano la formazione di risultati troppo elevati e poco significativi. La soluzione migliore sarebbe quella di creare un paniere di società operanti nello stesso settore con caratteristiche molto simili (in termini di possibilità di crescita del mercato, di payout, di beta…), anche quotate in borse straniere (in Paesi con un livello di rischio confrontabile).
Il confronto tra aziende appartenenti a settori diversi può essere poco significativo a causa della notevole importanza che riveste il tasso di crescita dei diversi settori e i relativi rischi operativi.
Un’azienda che opera in un settore con elevati gradi di innovazione con molta probabilità vedrà innalzato il proprio prezzo attuale rispetto ai requisiti patrimoniali posseduti grazie alle maggiori potenzialità di crescita future rispetto ad aziende che operano in settori consolidati come quello alimentare, metallurgico o chimico.
In presenza di tassi attesi di sviluppo del settore molto elevati, il risultato del rapporto può essere anche superiore a 100; tali dati vanno esaminati con cura perché le stime possono essere distorte da una probabile bolla speculativa. Il fatto di essere facilmente influenzabile dalla situazione congiunturale del momento è uno dei limiti di questo indice. Se il ciclo economico si trova alla fine della fase espansiva il rapporto p/e è basso, al contrario al termine della recessione è elevato, inoltre durante una bolla speculativa tale valore raggiungerà valori così sproporzionati da non avere alcun senso. Per cui nell’analisi di questo indice devono essere prese in considerazione numerose variabili: settore di appartenenza, tasso di crescita del mercato, dividendi distribuiti e previsioni sul futuro, momento del ciclo economico, rischio del Paese, presenza di bolle speculative, coefficiente beta ecc.
Un altro limite nell’utilizzo del price earning è la politica di ammortamento delle aziende. L’ammortamento rappresenta un costo, per cui se l’azienda decide di ammortizzare anticipatamente un bene (ovvero “si rende conto” che un bene, per esempio un macchinario, viene utilizzato nell’azienda in maniera molto intensiva per cui si sarà costretti a cambiarlo prima di quanto preventivato, in altri termini la sua vita residua è inferiore a quella media dei macchinari simili) le quote annue di ammortamento (riportate nel conto economico) saranno più elevate (data la minore durata del bene all’interno dell’azienda).
La conseguenza diretta si avverte in un aumento dei costi nel conto economico e in una conseguente depressione degli utili. Il p/e in tale caso si “gonfia” (aumentando “e” la frazione aumenta di valore) e rende il paragone con aziende simili (ovvero quelle che appartengono al peer group) non del tutto veritiero.
Per questa ragione le politiche d’ammortamento sono un limite all’utilizzo di questo multiplo; per evitare questa imperfezione sarebbe necessario effettuare un’analisi al bilancio, in particolar modo leggere attentamente la nota integrativa che illustra, per ogni cespite aziendale, la politica d’ammortamento utilizzata.
Solitamente vengono chiamati value quei titoli con un basso p/e (come per esempio quelli delle utilities), e growth i titoli con un p/e elevato (come quelli del settore tecnologico). Da qui discendono due scuole di pensiero circa la migliore strategia di investimento. Le imprese con un p/e elevato hanno un tasso atteso di crescita intrinseco (in termini di utili, cash flow, quota di mercato) molto elevato, tale da giustificarne il prezzo. Questo, però, può avere l’effetto perverso di far crescere sempre di più le aspettative e di conseguenza il prezzo, senza che ci sia una reale ragione. Per cui può essere difficile riuscire a capire fino a che punto il prezzo ingloba equamente la futura crescita e fino a che punto in realtà questo sia assolutamente sopravvalutato.
La strategia contraria è quella di acquistare solo titoli con un p/e molto basso perché sono quelli con le maggiori possibilità di crescita futura e non hanno ancora scontato nel prezzo aspettative. Anche in questo caso è necessario fare delle considerazioni sulla ragione del perché l’impresa è sottovalutata, ma, se i fondamentali dell’azienda sono solidi e le previsioni per il mercato di riferimento sono positive, questa strategia può rivelarsi quella vincente.
In presenza di un titolo con un prezzo troppo elevato, può accadere che un profit warning con la dichiarazione di utili molto inferiori alle aspettative (o nell’ipotesi peggiori di perdite) fa crollare il prezzo del titolo portando il risultato del p/e a un livello “attendibile” o addirittura “reale”, causando, però, perdite in conto capitale agli azionisti.
Sono state elaborate diverse strategie e metodologie interpretative nel confronto tra i price earning:
confronto con il p/e medio: calcolano diversi price earning in relazione agli utili per azione attesi per i diversi periodi temporali (per es. 1, 2, 5 anni) e li confrontano con il p/e medio (che si ricava dai p/e storici dell’azione stessa), nonché con quelli riguardanti azioni dello stesso settore o classe di rischio. Questa metodologia permette di valutare se il prezzo per azione è ritenuto equo dal mercato prendendo in considerazione le attese sugli utili previsti. Ipotizzando che un titolo presenti un price earning di 15, mentre il p/e medio è 10 e che il valore del p/e e quello medio tendano a convergere solo dopo diversi anni, la lettura che se ne può dare è che il prezzo attuale del titolo incorpora già una crescita reddituale prolungata, e quindi, in caso di peggioramento delle aspettative sui redditi è molto probabile che l’azione ne risenta pesantemente. Da ciò ne deriva che maggiormente è lontano il periodo nel quale il valore del p/e presente converge con quello prospettico, più è probabile che il titolo sia sopravvalutato;
metodo basato sull’osservazione del comportamento delle azioni nel tempo: si è giunti alla conclusione che nel medio/lungo termine risulta vantaggioso acquistare le azioni con p/e inferiore alla media del settore (o del mercato) e vendere quelle con p/e superiore, in quanto normalmente si assiste alla rivalutazione dei prezzi sottoquotati e parallelamente alla svalutazione di quelli sovraquotati. Un problema che si presenta nell’utilizzo di questo approccio empirico, nel caso di singoli investimenti, è la difficoltà nella valutazione di valori equi. Tale rischio è però notevolmente abbattibile tramite la costruzione di un portafoglio titoli sufficientemente diversificato; studio e comparazione di una serie di variabili:
– bilancio previsionale della società considerata con particolare attenzione agli utili per azione del titolo;
– price earning futuri medi del settore e del mercato;
– analisi delle variabili macroeconomiche che possono influenzare la gestione aziendale;
– tassi di interesse reali;
– correlazione tra l’evoluzione del mercato nella sua interezza e il singolo settore;
– componenti interne dell’azienda: la strategia aziendale, la struttura economica-finanziaria, la gestione del rischio, ecc.
– p/e futuro atteso;
– quotazione attesa del titolo.
Si deve notare che accanto alla “bellezza” teorica e alla coerenza accademica di questo approccio corrispondono difficoltà oggettive nella definizione di queste variabili di analisi.