La crisi finanziaria ha avuto un pesante impatto anche sulle forme di previdenza complementare. Nei paesi in cui i sistemi a contribuzione definita sono obbligatori, nel 2008 i fondi pensione hanno registrato perdite comprese tra il 20% e il 25%, che, ovviamente, hanno colpito in particolare i portafogli più aggressivi con un’elevata esposizione azionaria. Il 2009 ha rivisto sì un aumento dei corsi azionari ma non tale da recuperare le perdite del 2008.
Sicuramente il crollo del valore dei risparmi destinati a finalità previdenziali è, più di altri, fonte di enorme preoccupazione per i lavoratori, in particolare per quanti sono prossimi al pensionamento e non sono ancora passati a portafogli prudenti, né hanno acquistato un prodotto garantito.
La crisi finanziaria si è sviluppata in un periodo in cui i piani pensionistici a contribuzione definita stanno conoscendo una rapida espansione a livello mondiale, e in alcuni paesi vengono addirittura inseriti nel sistema pensionistico obbligatorio.
Interessante, sul tema della gestione dei sistemi pensionistici a contribuzione definita (i più diffusi in Europa in quanto interessano tutti gli Stati ad eccezione dell’Olanda maggiormente propensa ad un sistema misto), riprendere una ricerca di Allianz Global Investors AG (AllianzGI), in collaborazione con l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), sulle metodologie di gestione delle somme dstinate a finalità previdenziali.
Infatti, nonostante i molti vantaggi offerti, i sistemi a contribuzione definita creano grande incertezza sul fronte delle prestazioni previdenziali. Sebbene l’applicazione di apposite norme possa arginare alcuni di questi rischi e impedire che il reddito pensionistico dei lavoratori più anziani o in pensione si riduca sensibilmente, la definizione di tali norme rappresenta un compito complesso che impone di considerare attentamente una serie di fattori legati all’aspetto demografico e al rischio degli investimenti.
Questo studio ha valutato diversi approcci alla regolamentazione del rischio, esaminandone l’incidenza sulle varie politiche di investimento e, di conseguenza, sui rendimenti e sui tassi di sostituzione.
Col fine di fornire la maggior tutela possibile agli investimenti finalizzati all’aspetto previdenziale occorre ridurre il rischio di ribasso relativo al reddito pensionistico derivante dai piani a contribuzione definita e per far questo è necessario passare a politiche di investimento relativamente prudenti che prevedano l’allocazione di una quota piuttosto elevata in obbligazioni (generalmente superiore al 60%).
Questo significa tuttavia rinunciare a tassi di sostituzione potenzialmente più elevati.
Alcuni Paesi europei in cui vigono sistemi a contribuzione definita obbligatori non consentono ancora al lavoratore di scegliere tra diverse linee di investimento e prevedono solo un unico portafoglio indipendentemente dall’età, dalla quota relativa al piano a contribuzione definita o dalla tipologia di prestazione prescelta. Estonia, Ungheria e Repubblica slovacca, per esempio, hanno stabilito un portafoglio prudente (privo di azioni) come opzione di default per tutte le fasce di età. L’incidenza della quota a contribuzione definita sul reddito pensionistico totale sembra essere attualmente il fattore chiave per la definizione delle opzioni di default.
L’analisi conferma che un portafoglio di investimento può essere efficiente da un punto di vista di media-varianza a breve termine ma inefficiente se considerato dal punto di vista di un iscritto al piano pensionistico. Sia le allocazioni azionarie molto basse (inferiori al 20%), sia quelle molto elevate (superiori all’80%) appaiono poco interessati in termini di trade-off tra aspettative di tasso di sostituzione e rischio…
L’adozione di alcune semplici regole, quali la definizione di un tetto massimo del 30-40% per le azioni, potrebbe portare a risultati analoghi a quelli ottenibili con approcci normativi più complessi, quali per esempio i limiti al Value at Risk, ma solo se il modello è validato da eventi reali. Inoltre, alcune delle norme basate sul rischio sono particolarmente impegnative e possono dare luogo a strategie di investimento procicliche problematiche, che costringono i fondi pensione a vendere le proprie partecipazioni azionarie nei momenti sfavorevoli di ribasso dei mercati.
I limiti di alcune delle più sofisticate norme basate sul rischio si sono amplificati nel contesto di rapido mutamento delle condizioni di mercato, come avvenuto nel caso dei modelli di gestione del rischio adottati da banche e compagnie assicurative durante la crisi finanziaria del periodo 2007-2008. Una valutazione complessiva del rischio su un orizzonte di investimento a lungo termine deve partire dal presupposto che i modelli di rischio siano adatti a tale scopo e i parametri sottostanti colgano la situazione reale dei mercati finanziari.
In questo contesto è importante che le politiche pubbliche considerino il trade-off tra rischio e rendimento nella valutazione del reddito pensionistico potenziale e della protezione da risultati negativi nei piani pensionistici a contribuzione definita.
Tuttavia, è importante sottolineare che non esiste un unico tradeoff corretto: il trade-off dipende dal paese considerato, dalle caratteristiche specifiche della struttura del rispettivo sistema pensionistico e dai livelli di avversione al rischio, nonché dagli incentivi messi in atto per ottenere i livelli di partecipazione auspicati, dall’atteggiamento culturale verso i rischi finanziari e dalla natura della promessa previdenziale.
Lo studio è concluso da Pablo Antolin, dell’OCSE, che afferma come "Nei paesi in cui le prestazioni dei piani pensionistici a contribuzione definita rappresentano la principale fonte di reddito pensionistico il costo sociale di un risultato negativo è assai più elevato, e dove la partecipazione ai piani a contribuzione definita è obbligatoria i timori relativi al rischio possono prevalere sul desiderio di ottenere tassi di sostituzione potenzialmente più elevati".