Impegnarsi nella decarbonizzazione e produrre energia più pulita contrastando il cambiamento climatico è sempre più importante per ridurre i danni irreversibili al pianeta. Oggi sono molti i governi mondiali che stanno supportando la transizione energetica con l’obiettivo di limitare il surriscaldamento mondiale fissato entro la media globale dei 2°C rispetto ai livelli preindustriali.
Per affrontare concretamente gli impatti economici e sociali derivanti dal cambiamento climatico, dallo sfruttamento delle risorse e dall’inquinamento è necessario computare il rischio climatico.
Cos’è il rischio climatico?
Il rischio climatico si determina prendendo in considerazione i rischi fisici cronici e acuti, considerando anche i rischi di transizione verso un’economia più pulita, ovvero i rischi connessi alle politiche e regolamentazioni, sviluppo tecnologico e preferenze dei consumatori: non si tratta quindi solo di una mera stima dell’ammontare dei danni climatici possibili, ma un lungimirante calcolo degli impatti e delle conseguenze che anche fattori apparentemente secondari potrebbero generare nel sistema.
Rischio climatico, un conto da 500 miliardi di dollari
Le due macrocategorie che caratterizzano il rischio climatico non sono fini a sé stesse: i rischi fisici e di transizione creano effetti amplificati sul sistema economico, sia a livello micro, riguardando imprese e famiglie, sia a livello macro, impattando sul sistema macroeconomico. Fra le principali conseguenze possibili si individuano il rischio di credito, di mercato, di sottoscrizione, operativo e di liquidità. The Adaption Finance Gap Report, Programma delle Nazioni Unite, stima i costi relativi all’adattamento e transizione fra i 250 e 500 miliardi di dollari entro il 2050.
Rischio climatico e contenimento del costo del carbonio
Il blocco del prezzo del carbonio rappresenta un fattore chiave per contenere il rischio climatico in questa fase di transizione: negli ultimi tempi il prezzo della fonte è più che raddoppiato arrivando a raggiungere i 55 USD per tonnellata.
Qualunque cosa si farà per ridurre le emissioni di carbonio, ne verrà comunque emesso a milioni di tonnellate all’anno nell’atmosfera per i prossimi decenni. Ecco perché è importante investire nella tecnologia di cattura del carbonio e cercare di limitarne il suo prezzo: è giusto ricordare che qualsiasi aumento di prezzo del carbonio potrebbe causare uno “shock dal lato offerta” dal momento che l’aumento dei costi aziendali determina una maggior pressione inflazionistica; inoltre, di fronte a un aumento del costo dei servizi, gli investitori potrebbero cercare alternative più economiche.
Rischio climatico ed emissioni globali
Per contrastare gli effetti del rischio climatico e concretizzare l’obiettivo è’ importante che ci si concentri su politiche e norme volte a favorire nuove infrastrutture e pratiche che attenuino le emissioni entro i limiti posti anche nel medio e lungo termine: secondo il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente, è necessario ridurre le emissioni del 7,6% su base annuale per contenere l’aumento della temperatura globale sotto la soglia di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, ma se le politiche resteranno invariate si correrà il rischio del verificarsi delle attuali stime di aumento della temperatura, ovvero di 3°C entro il 2100.
Oggi gli investitori ritengono che ci sia bisogno di politiche ancora più stringenti rispetto quelle in atto che prevedono imposte per le emittenti per ogni tonnellata di CO2 prodotta e di contro, preferirebbero allinearsi a investimenti con emissioni di carbonio che limitino l’aumento delle temperature a 1,5°C, parametro che ad oggi risulta in minoranza nell’universo investibile per contrastare il riscaldamento globale.
L’intensità di carbonio, ovvero le emissioni di carbonio per unità di produzione, non è equamente distribuita nell’universo azionario, ma si concentra in una minoranza di società e settori ad alte emissioni. Oggi il 5% dei titoli per capitalizzazione di mercato costituiscono il 75% delle emissioni totali di carbonio dell’indice S&P 500. Il settore dei servizi di pubblica utilità è responsabile del 49% del totale delle emissioni nonostante rappresenti solo il 2,7% della market cap.
Gli investitori che puntano a ridurre la propria impronta di carbonio dovrebbero monitorare con attenzione il rischio di settore o intraprendere iniziative per ridurlo. Il disinvestimento da tali settori è un’opzione, ma potrebbero anche esserci opportunità di transizione legate alla portata dei cambiamenti necessari.
Invesco e il modello degli scenari NGFS
Invesco ha adottato gli scenari climatici sviluppati dal Network of Central Banks and Supervisors for Greening the Financial System (NGFS) con dati mappati fino al 2050 per simulare l’impatto di una serie di rischi fisici e di transizione sulle partecipazioni di Invesco in azioni globali, obbligazioni societarie e obbligazioni sovrane per ciascuno dei tre scenari NGFS: Hot House World, Orderly, Disorderly.
Il modello indica che gli impatti della valutazione sono massimi negli scenari Orderly e Disorderly, dove i rischi di transizione sono più elevati. Gli impatti nello scenario Hot House World, legati ai rischi fisici, sono minori. Le azioni sono l’asset class più colpita in tutti e tre gli scenari.
Nel complesso, è chiaro che, dal punto di vista degli investitori, potrebbe essere necessario riformulare le aspettative di rendimento in luce dei maggiori rischi connessi agli asset quotati e alla possibilità di rendimenti meno sicuri.
Tutte le opportunità dell’economia sostenibile e della transizione
Lo studio Morningstar “Do Sustainable funds beat their rivals?” ha dimostrato che quasi sei fondi sostenibili su dieci hanno dato rendimenti superiori a quelli di fondi convenzionali equivalenti tra il 2010 e il 2020. Basato su 745 fondi sostenibili domiciliati in Europa, lo studio ha dimostrato che la maggior parte delle strategie hanno registrato migliori performance dei fondi non ESG nell’arco di uno, tre, cinque e dieci anni.
Fondi pensione e rischi ESG nelle decisioni di investimento
Le considerazioni sul clima dovrebbero essere all’ordine del giorno anche per i trustee dei fondi pensione visto il recente panorama normativo e l’allineamento alle raccomandazioni della Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD): ad oggi il 54% dei fondi pensione europei considera l’impatto del cambiamento climatico e secondo un’indagine condotta da Mercer che ha coinvolto 927 investitori istituzionali, con una massa complessiva di asset in gestione di 1,1 trilione di EUR, l’89% dei fondi pensione intervistati considerano i rischi ESG parte delle proprie decisioni di investimento: un aumento se si considera il 55% del 2019.
Fonte: Rapporto Invesco – Rischio climatico, i dieci numeri chiave