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I mercati premiano i
prodotti innovativi

Tantissimi studi e ricerche lo affermano senza troppi indugi: puntare forte sull’innovazione vuol dire riuscire ad aumentare in maniera considerevole i ricavi. A questa regola, non sfugge neanche l’industria finanziaria, dove i nuovi prodotti attraggono sempre più l’attenzione dei mercati e i nuovi processi stanno rivoluzionando il modo di gestire gli investimenti. Un trend da conoscere e seguire con attenzione

L’economia che innova è quella che piace ed ottiene dei risultati migliori

É complicato trovare un’idea, nutrirla, farla crescere e traghettarla sino a farne un nuovo prodotto: alcuni studi mostrano che solo il 15% delle idee messe a fuoco riesce a sopravvivere attraverso l’intero processo di sviluppo e diventa prodotto. Senza dimenticare poi che il successo commerciale post lancio non è mai assicurato e spesso non viene raggiunto.

Peraltro, se l’attività di sviluppo di nuovi prodotti è efficace, cioè se è in grado di selezionare buoni spunti e di farli progredire nel modo corretto lungo le diverse fasi del processo, ecco che l’innovazione dispiegherà per intero la sua magia e sarà una potentissima leva di crescita per le imprese. Il concetto è rappresentato efficacemente da Aswath Damodaran che afferma: “The very best approach of creating growth historically has been to come up with a new product (…)”. Il docente della NYU Stern suggerisce alle imprese, e agli investitori che devono scegliere in quale tipo di growth company mettere i soldi, di puntare proprio sulla crescita organica, ottenuta grazie all’innovazione.

Al dibattito sulle leve di sviluppo più attraenti non sfugge l’industria dei servizi finanziari e, in particolare, quella della gestione del risparmio. La sensibilità sul tema di manager, imprenditori e azionisti è peraltro molto elevata perché molte sono le società di Asset Management quotate e, anche quando non lo sono, il loro contributo ai risultati consolidati di gruppo è davvero significativo. Una recente analisi di MackayWilliams conferma il ruolo chiave dei nuovi prodotti nel garantire l’espansione della raccolta: il 20% circa degli AUM dell’industria europea fa capo a fondi che sono stati lanciati negli ultimi 5 anni. Inoltre, su 100 prodotti top seller nel 2015, solo un terzo aveva ancora raccolta positiva alla fine del 2018, a prescindere (purtroppo) dai risultati di gestione.

Ma da dove arrivano le opportunità di innovazione per l’industria del Risparmio Gestito? Gli stimoli e le spinte sono molti e diversi tra loro: dalle modifiche della normativa all’evoluzione naturale del settore, dalla dinamica dei mercati alle istanze degli investitori. Per migliore chiarezza è opportuno esaminare l’impatto che queste forze possono avere in termini di innovazione (i) di prodotto, modificandone quindi ruolo, obiettivi e caratteristiche, e (ii) di processo, osservando cioè l’evoluzione delle tecniche di costruzione e gestione dei portafogli.

Innovazione di prodotto

Il fenomeno probabilmente più rilevante per gli equilibri dell’industria (lato operatori e lato investitori) è senza dubbio l’affermazione degli Etf – la cui quota di mercato sugli AuM mondiali è raddoppiata tra il 2010 e il 2018 – in parallelo alla difficoltà di generazione di alpha con sufficiente continuità da parte dei fondi attivi. La capacità di rivedere la struttura commissionale dei prodotti, allineando gli interessi degli investitori e i propri, sarà fondamentale per consentire agli Asset Manager di reagire a questa micidiale combinazione di forze, innescando un nuovo ciclo potenzialmente virtuoso prima di ogni eventuale intervento legislativo che regolamenti top-down la materia. Le mosse di due big player internazionali della gestione attiva, che hanno quasi azzerato le management fee a favore delle performance fee, non sono che il primo passo.

Peraltro, le modifiche legislative sono spesso un’opportunità. Se intelligentemente interpretate, o addirittura previste, offrono eccellenti vantaggi competitivi. I due esempi più clamorosi di sfruttamento di una discontinuità normativa sono probabilmente la formidabile ascesa dei prodotti Ucits Alternativi a partire dallo scoppio della Grande Crisi Finanziaria del 2008 (oltre 400 mld/€ di raccolta nel decennio) e il fenomeno dei fondi Pir compliant in Italia (quasi 19 mld/€ di raccolta nell’ultimo triennio). Nel primo caso, una modifica legislativa ha reso possibile che strategie fino a un certo momento riservate ai soli fondi hedge, fossero disponibili anche per prodotti che rispettano la normativa Ucits e quindi destinati al mass market. Nel secondo, l’innovazione si è tradotta nella configurazione di un veicolo di investimento che, nel rispetto di alcuni precisi vincoli di portafoglio e di detenzione minima (che implicitamente educa i sottoscrittori verso un holding period più esteso), consente un’ottimizzazione del trattamento fiscale delle eventuali plusvalenze. Ancora da valutare sarà il successo degli Eltif (European Long Term Investment Funds), fondi chiusi regolamentati da norme UE. In linea di principio, gli Eltif presentano caratteristiche interessanti e le attese di raccolta di chi ha lanciato i primi esempi di prodotto sono elevate. A vantaggi fiscali analoghi a quelli dei Pir si associano caratteristiche di investimento “quasi alternativo”. Il sottoscrittore, impegnandosi a restare a bordo del veicolo per 5/7anni, si può attende re di essere remunerato con un rendimento più elevato di quelli che possono essere estratti da altre attività finanziarie proprio grazie al premio per l’illiquidità della fetta di patrimonio allocata a un Eltif. In linea di principio, questo dovrebbe generare anche una minor correlazione rispetto ai rendimenti dei tradizionali listed asset.

Ulteriore driver di cambiamento è la possibilità di migliorare la fruibilità del prodotto per i sottoscrittori. Lo studio del loro comportamento mostra che errori sistematici legati al modo col quale ci poniamo di fronte all’andamento dei prezzi delle attività finanziarie hanno impatti negativi rilevanti sul rendimento di lungo periodo degli investimenti. Morningstar da anni evidenzia e calcola l’ampiezza del cosiddetto behavioral gap, cioè il minor rendimento ottenuto dal cliente rispetto a quello del fondo in cui ha investito. Si può discutere se l’aiuto a chiudere il gap debba venire dal consulente finanziario, che aiuta il cliente a gestire la propria emotività nei momenti di stress sui mercati, oppure se questo ruolo possa essere svolto già dai prodotti. In questo senso, è interessante la disponibilità di soluzioni di investimento che aiutano ad aggirare i bias comportamentali tipici della clientela e consentono di abbatterne drasticamente gli effetti. Si tratta in particolare di meccanismi automatici che, condivisi col cliente all’apertura del rapporto, dosano i flussi in entrata nei prodotti, aumentandone gli importi qualora si registrino flessioni dei mercati di riferimento, atteggiamento quindi esattamente opposto a ciò che l’investitore medio tende a fare, concentrandosi spesso non sulle prospettive di medio periodo, ma sulle dinamiche quotidiane dei mercati.

Innovazione di processo

L’altro grande filone evolutivo fa riferimento al processo di investimento. L’andamento dei mercati finanziari nel recente passato, gli episodi di crisi, la volatilità e l’andamento relativo delle asset class, in particolare il tracollo aldilà di ogni aspettativa dei rendimenti obbligazionari, stanno cambiando le esigenze degli investitori e il modo di costruire i portafogli. Tre sono i temi dove si concentrano maggiormente gli sforzi di innovazione di processo: la ricerca di rendimenti assoluti positivi/decorrelati, l’uso dei big data e lo sfruttamento della finanza comportamentale. Ma andiamo con ordine. Come sappiamo, le grandi speranze che i fondi Ucits Alternativi potessero svolgere nell’asset allocation il ruolo che storicamente apparteneva ai bond sono andate deluse.

Perché questa famiglia di prodotti non ha rispettato la premesse? Difficile dare una risposta definitiva. Più ragionevole è invece provare a elencare alcuni dei difetti di origine più evidenti che hanno ostacolato il raggiungimento degli obiettivi. In primis, sono state riposte speranze eccessive in strategie relativamente nuove, con track record limitato e, soprattutto, non testato in fasi di mercato diverse dal robusto bull market che ci ha sostanzialmente accompagnato dal 2009 a oggi (pochissimi sono i fondi Ucits alternativi che già erano sul mercato nel 2008 e nel 2011). In secondo luogo, queste strategie si sono dimostrate assai meno decorrelate dai mercati di riferimento di quanto si immaginasse, soffrendo in modo particolare negli anni di borse negative (quasi il 40% dell’universo ha patito perdite superiori al 6% nel 2018) . Infine, come spiega ancora Morningstar, i costi eccessivi hanno zavorrato rendimenti che per definizione, non avendo l’obiettivo di sfruttare la direzionalità dei mercati, sono contenuti e più simili a quelli storicamente generati dalle obbligazioni. Oggi pochi investitori pensano che questa categoria di fondi rappresenti il perno di una strategia di allocazione efficiente e si stanno osservando nuove metodiche di portfolio construction che prevedono un maggior contenuto di direzionalità, sia pure con una nuova declinazione. Ad esempio, si preferisce ricorrere a strategie direzionali tradizionali, alle quali vengono però associate strategie megatrend o tematiche. Studi recenti mostrano che portafogli azionari globali core-satellite esposti alle due strategie sono in grado di offrire risultati interessanti, sia in termini di rischio/rendimento, sia dal punto di vista della capacità di abbassare la correlazione del portafoglio verso i principali indici mondiali. Strutture di questo tipo dovrebbero infatti essere in grado di catturare le opportunità di medio/lungo termine create da trend strutturali, dai quali ci si attendono quindi rendimenti coerenti e meno correlati alla ciclicità o alle dinamiche di area geografica o di settore che normalmente hanno impatto su un portafoglio tradizionale.

Un altro filone di ricerca è quello che ipotizza di arricchire o di andare addirittura oltre il set informativo al quale si guarda oggi per prendere le decisioni di portafoglio raccogliendo, osservando e interpretando i big data. In particolare, ciò che sembra interessante e foriero di implicazioni positive è la disponibilità di un’enorme quantità di dati, accessibili in tempi rapidissimi e in grado di rappresentare fonti di notizie alternative a quelle economico-finanziarie tradizionali. Ciò significa poter individuare nuove fonti di alpha o riuscire ad aumentare il potere predittivo dei modelli di analisi. I big data possono inoltre essere considerati in altre prospettive, ad esempio per cercare tracce del sentiment degli investitori e inferire il loro comportamento sui mercati in chiave comportamentale, provando così a prevederne l’andamento. In particolare, si è osservata una buona correlazione tra l’intensità e la tendenza della ricerca di alcune parole chiave sul web e la direzione dei mercati azionari di riferimento.

Riflessioni finali sul tema

Infine, appare interessante la costruzione di algoritmi che, riconoscendo i sistematici bias comportamentali degli investitori e tenendone conto, migliorano il processo di assunzione delle decisioni. Ciò può trovare applicazione sia nell’ambito dei tradizionali processi di investimento discrezionali, dove i trade che ricalcano modelli predefiniti vengono identificati e controllati prima di essere eseguiti, oppure nella costruzione di vere e proprie strategie sistematiche che adottano logiche counter-trend. 

È improbabile che l’era caratterizzata dall’intelligenza artificiale, dal machine-learning e dalla robotica stravolga i criteri di funzionamento della consulenza sui prodotti e renda obsoleto il ruolo umano nell’attività di gestione. Peraltro, è certamente possibile declinare meglio la value proposition delle soluzioni di investimento e rendere più efficaci le strategie utilizzate per l’attività di gestione, lavorando su fasi specifiche del processo di investimento. Le società di Asset Management che si sono mosse verso l’utilizzo delle nuove tecnologie lo hanno fatto senza sostituire il ruolo umano, ma hanno cercato di migliorare la capacità di analisi delle informazioni e di assunzione delle decisioni, aggiungendo nuovi criteri con l’obiettivo di fornire una sorta di metodo di controllo, complementare quindi all’attività umana.

Ciò che spesso si legge in senso opposto, e che auspica e anzi suggerisce il superamento dei principi della finanza classica che sarebbero inadatti a interpretare un mondo nuovo fatto da Amazon, Netflix e da chissà cos’altro ci riserverà il prossimo futuro, mettendo a punto metodiche finalmente in grado di battere i mercati sistematicamente e in ogni condizione, suona nel migliore dei casi come una semplificazione estrema, spesso a uso e consumo di strategie di marketing, peraltro un po’ goffe.