Il nuovo ruolo del consulente finanziario post MiFID II al PFEXPO. Ecco la view di Eugenio de Vito (4Timing sim)
“La crisi finanziaria degli ultimi anni ha evidenziato l’inadeguatezza delle regole dettate, in materia di prestazione dei servizi di investimento, a garantire il rispetto del principio generale di agire nel miglior interesse dei clienti, mostrando una perdita di fiducia nella trasparenza dei mercati. I presidi della MiFID I si basavano sulla fiducia nei meccanismi di trasparenza e nelle regole di condotta in grado di garantire un adeguato livello di tutela al risparmiatore. La MiFID II, invece, prende coscienza dei limiti di tali misure se applicate esclusivamente alla fase distributiva. In sostanza bastava rispettare obblighi informativi, di trasparenza e di condotta e aver avvisato il cliente sul rischio dei prodotti e il gioco era fatto, potevano essere venduti a chiunque. La MiFID II invece responsabilizza gli intermediari sin dalla creazione in maniera che non possano essere venduti indistintamente a qualsiasi tipologia di cliente, bensì unicamente all’interno di un mercato di riferimento pre-individuato”.
A parlare è Eugenio de Vito, ceo di 4Timing sim, che in questo contributo anticipa parte dell’intervento che terrà il 24 gennaio, al PFEXPO di Milano, all’interno della tavola rotonda “Un nuovo approccio ai portafogli: come cambiano gli investimenti con la MiFID II”, che si svolgerà al Palazzo delle Stelline, in sala Leonardo, dalle 14.15 alle 16.00 (clicca qui per iscriverti all’evento)
“La product governance quindi è uno degli presidi fondamentali introdotti dalla direttiva MiFID II al fine di accrescere la protezione degli investitori, sin dalla fase di ideazione e creazione del prodotto e non solo al momento della firma del contratto.
La product governance trova il proprio fondamento normativo negli artt. 16 e 24 della MiFID II, negli artt. 9 e 10 della direttiva delegata n. 2017/593, che integra la MiFID II, che delineano più dettagliatamente gli obblighi facenti capo rispettivamente ai produttori e ai distributori e nelle linee guida dell’Esma, che ha elaborato le categorie da considerare nell’identificare il target market: classificazione del cliente, conoscenza ed esperienza, situazione finanziaria e capacità di sopportare perdite, tolleranza/attitudine al rischio e compatibilità del profilo di rischio/rendimento del prodotto rispetto al target individuato, obiettivi ed esigenze del cliente riferite all’orizzonte temporale.
La product governance riguarda la compatibilità dei prodotti che si intendono strutturare con le esigenze dei clienti, inteso come target market al quale sono destinati. Quindi tali prodotti devono essere concepiti per soddisfare le esigenze di un determinato target market potenziale di clienti, positivo e negativo (adatto e non adatto ad un certo target).
Ciò significa che il produttore redige un bugiardino che condiziona l’attività del farmacista e quindi gli emittenti mettono a disposizione dei distributori tutte le necessarie informazioni sullo strumento finanziario, compreso il suo mercato target potenziale. È inoltre tenuto a definire la strategia di distribuzione e i canali di vendita selezionando quei distributori che, per tipologia di clienti e di servizi, risultino compatibili con il target market del prodotto
Dal canto loro, i distributori sono tenuti all’implementazione di strategie distributive appropriate rispetto alle caratteristiche del mercato target effettivo, la cui individuazione dovrà essere svolta sulla base delle informazioni fornite dai produttori, nonché di quelle a loro disposizione in ragione del contatto diretto con il cliente e anche attraverso anche il questionario di profilatura. Un flusso informativo continuativo tra distributore e produttore, soggetto a riesame periodico per valutarne la continuativa coerenza e compatibilità con il target market. Tutto ciò non si sostituisce alle valutazioni di adeguatezza e appropriatezza con riguardo allo specifico cliente, bensì attiene a una fase preliminare per assicurare esclusivamente che il prodotto venga distribuito all’interno di quella cerchia di investitori per cui è stato disegnato.
Sarà proprio la valutazione di adeguatezza nel caso concreto a permettere un’eventuale deviazione dal target market individuato. L’Esma ha definito infatti che, nell’ambito di una gestione patrimoniale o della prestazione del servizio di consulenza di portafoglio, il distributore possa vendere o raccomandare uno strumento finanziario fuori target all’investitore in un’ottica di diversificazione del portafoglio o a fini di copertura; ciò esclusivamente qualora, il prodotto risulti conforme ai requisiti di adeguatezza e, in particolare, agli obiettivi di investimento del cliente
Comunque sia, ogni vendita al di fuori del target market dovrà essere giustificata dalle caratteristiche del caso concreto e tali ragioni dovranno essere debitamente documentate. In sostanza la product governance limita fortemente la libertà di azione che ha caratterizzato l’ultimo decennio, nel bene e nel male.
Da un lato tende a evitare gli scempi commessi soprattutto dalle banche, dalla crisi finanziaria in poi, nella raccolta di denaro al dettaglio, laddove la liquidità dell’interbancario era venuta meno, a tassi decisamente più bassi rispetto ai titoli di stato, in una sorta di mis pricing legato a carenze cognitive dei risparmiatori che impediscono di dare la corretta valutazione al rischio, dall’altra però rischiano di far fare ai consulenti un passo indietro, tornando a fare i promotori.
Mi spiego: l’articolo 54 del regolamento delegato 565, che in quanto tale è recepito in automatico da tutti gli stati membri e che integra la MIiFID II, dice chiaramente che gli intermediari quando, nel prestare servizi di consulenza o di gestione, propongono cambiamenti nel portafoglio, mediante la vendita di uno strumento e l’acquisto di un altro, devono effettuare una precisa e dettagliata analisi dei costi e benefici del cambiamento, in modo tale da essere ragionevolmente in grado di dimostrare che i benefici del cambiamento sono maggiori dei relativi costi
Tutto ciò insieme ai presidi della product governance credo produrrà un aumento dei costi e dei presidi per i distributori e per i risparmiatori un restringimento dell’universo investibile, nonostante tra gli obiettivi della direttiva Ue ci sia l’ampliamento della gamma di offerta come uno degli elementi in grado di innalzare la qualità del servizio e consentire così alle reti distributive di continuare a incassare gli incentivi dalle case prodotto.
In tale contesto, la soluzione che le reti distributive hanno individuato è quella di scoraggiare la vendita di singoli fondi comuni e portare i clienti verso polizze unit linked e, soprattutto, gestioni patrimoniali. Un servizio, quest’ultimo che comporta una serie di vantaggi per l’intermediario che lo propone:
sul fronte costi, che nelle gestioni patrimoniali sono esplicitati, e su quello della reportistica al cliente che viene già inviata in via automatica. Nel servizio di consulenza, invece, le banche dovranno comunicare i costi ex-ante ed ex-post e ora sono in difficoltà nell’adeguarsi alle richieste della MiFID II.
Inoltre nella gestione patrimoniale il distributore è anche gestore e la commissione di gestione rimane quindi sempre in capo alla banca: non c’è particolare necessità di giustificare le retrocessioni come motore di miglioramento del servizio al cliente per incassarle. Del resto nelle gestioni patrimoniali il cosiddetto «inducement», cioè la commissione retrocessa ai gestori dalle società prodotto, è già stato vietato con la prima MiFID.
La verifica di adeguatezza per ogni singolo strumento è sicuramente molto onerosa.
Lo scopo tra gli altri è di controllare meglio l’operato dei promotori e ridurre i problemi derivanti dal rispetto della product governance che impone agli intermediari assetti organizzativi e regole di comportamento per lo scambio continuo di flussi informativi tra chi crea e chi vende il prodotto
Insomma (come spiegato qualche giorno fa) sembra di tornare al 1994, agli esordi del mio mestiere: appena superato l’esame da pf, una futura laurea in economia e tanta voglia di proiettarmi nel fantasmagorico mondo della consulenza finanziaria.
Dopo un paio di anni, in forza presso una delle reti più blasonate del nostro sistema, capii l’origine della denominazione di “promotore finanziario”. L’ordine di scuderia era molto semplice: proporre i 4 fondi di casa (tra cui il mitico Fondo Professionale) e le gestioni patrimoniali, in cui il pf veniva totalmente “sollevato” dalla responsabilità di scelte discrezionali e naive di gestione.
Finalmente l’inizio del terzo millennio, a causa degli scarsi risultati delle asettiche gestioni patrimoniali, la forte spinta concorrenziale e la conseguente necessità di offrire prodotti non solamente captive, vide la genesi del sistema del risparmio gestito 4.0: il multi-brand.
Il promotore iniziava così una nuova professione, quella del piccolo chimico, combinando fondi ultra specializzati per creare la formula miracolosa, capace di rendimenti stellari. Finalmente poteva muoversi liberamente, dal mercato equity a quello bond, da quello Usa a quello high tech del sud est asiatico, il tutto nel giro di 24 ore, grazie anche a sofisticate piattaforme digitali e alla web collaboration.
Insomma il multi-brand ha messo «le ali» al promotore finanziario, finalmente in condizione di sentirsi, ancor prima che la legge di stabilità 2016 ne cambiasse la denominazione, non più un venditore di prodotti ma un vero e proprio consulente a tutto tondo, capace di coniugare le esigenze del cliente con le tendenze dei mercati finanziari.
La MiFID II spariglia definitivamente le carte, rischiando di far precipitare il nostro consulente di nuovo negli anni 90, tra ingessati portafogli modello e obsolete gestioni patrimoniali.
Qual è allora il vero ruolo del consulente finanziario e perché la MiFID II dovrebbe rappresentare per lui un punto di svolta nell’emancipazione professionale?”