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Il caso della settimana

RATING: STRUMENTO OBSOLETO O LETTERA DI COMODITA’?

Il rating strumento utilizzato per mandare in paradiso o all’inferno. Ma come viene utilizzato dalle agenzie di rating ? La nascita e lo sviluppo in un secolo di storia della finanza.

LO STRUMENTO – Era fin troppo facile per tutti affidarsi a quelle sequenze di lettere, le prime dell’alfabeto ad indicare nozioni positive o negative che determinavano l’upgrade o il downgrade di una società. Facile in fin dei conti per un cliente alla ricerca del miglior rischio rendimento capire quale titolo acquistare. Salvo scoprire, quando scorreva l’anno 2008 mese di settembre  che la tripla A per meglio intenderci AAA di Lehman Brothers non lo era affatto. Da allora lo scenario avrebbe dovuto cambiare e molti ne avranno tenuto conto? Si è accentuato proprio in quei giorni la crisi di credibilità delle agenzie di rating, che io definirei MONOPOLISTE. Sono solo tre, Moody’s, Standard & Poor e Fitch, ma negli anni si sono divise circa il 95% del reame del rating. Il loro giudizio sembra insindacabile, la loro influenza è somma, la loro potenza quasi inscalfibile. Ma chi sono e da dove vengono queste tre sorelle che arbitrano i destini e le fortune di mezzo mondo? Cominciamo a dire che le tre agenzie non sono enti morali né associazioni a scopo benefico, bensì si tratta di società private a scopo di lucro.

GLI ESORDI – La prima, quella di James Moody, nasce nel 1909 come guida alle oltre duecento compagnie ferroviarie americane: ne passa al setaccio i bilanci, ne studia gli investimenti e dà loro un voto basato sull’affidabilità. Un baedeker utilissimo, immediatamente imitato sette anni dopo dalla Standard Company (che in seguito si fonderà con la Poor’s) e poco più tardi dalla Fitch. Dopo la crisi del ’29 il rating sulle obbligazioni diventa obbligatorio: le banche cioè possono acquistare solo obbligazioni certificate dalle tre agenzie. È l’inizio di un’ascesa che non si è mai più arrestata: da decenni, chiunque voglia piazzare sul mercato un’obbligazione per autofinanziarsi (un’azienda, una banca, una compagnia di assicurazione, un fondo comune, uno Stato) deve cercare di strappare un voto positivo alle tre agenzie; senza quel voto, è sostanzialmente impossibile raccogliere denaro sul mercato. 
Il loro verdetto ha effetti immediati, a volte pesantisissimi: quando Moody’s o Fitch, o Standard & Poor abbassano il rating di aziende o soggetti pubblici particolarmente indebitati (come è stato il caso della Grecia, o del Portogallo) si ha un istantaneo rialzo degli interessi applicati ai prestiti in corso e un conseguente aumento degli oneri finanziari. A volte il debitore è indotto perfino a cedere beni di sua proprietà a qualsiasi prezzo pur di evitare un peggioramento del rating, così come sotto una certa soglia di rischio le banche ed altri soggetti sono obbligati a liberarsi di certe obbligazioni, anche a costo di svenderle. Enorme, come si può capire, è il potere arbitrale di queste agenzie.

LA POLEMICA – La domanda a questo punto è lecita: chi è proprietario e chi paga le agenzie di rating? Il loro capitale azionario è in mano a fondi di investimento o emanazioni di banche d’affari, ma a remunerarle, tenetevi forte, sono gli stessi soggetti (aziende, banche, fondi, Stati) che aspirano a immettere obbligazioni sul mercato finanziario. Un po’ come se pagassimo la commissione d’esame che deve giudicarci. Al di là del palese conflitto di interessi, che potrebbe restare nella migliore delle ipotesi nel campo della pura teoria, vi è l’effetto "bolla", cui le tre agenzie sembrano a loro volta soggette: quando le Borse vanno a gonfie vele, quando tutti comprano e si indebitano, le tre agenzie tendono a regalare voti alti a tutti; quando la tendenza si inverte, declassano senza pietà. Ma accade anche il contrario, ovvero il sospetto ritardo nell’abbassare il rating, o peggio la manifesta complicità, su questo sta indagando il Senato americano, nel dare pagelle eccellenti a titoli spazzatura truffando gli investitori a beneficio delle banche d’affari. Ma l’effetto forse più letale che un verdetto negativo da parte di queste agenzie può produrre è quello che si riverbera sui cambi.

CHI CONTROLLA ? È bastato nei mesi scorso  un declassamento del debito pubblico spagnolo per far flettere l’euro e un successivo martellamento sui debiti greco e portoghese per spingerlo sotto la soglia di 1,24, il livello più basso degli ultimi quattro anni.  Facile immaginare che in questo braccio di ferro fra dollaro ed euro le agenzie di rating abbiano (o per lo meno possano avere) un ruolo decisivo. Ma con quale trasparenza? Con quali intenzioni? E soprattutto con quali controlli? Possiamo credere che società che hanno come azionista il finanziere Warren Buffett siano neutrali nei confronti dell’euro? O di fondi concorrenti? O di gruppi bancari non americani? A Bruxelles circola l’ipotesi (in parte caldeggiata dal cancelliere Merkel) di dotarsi di un’agenzia di rating europea per sottrarsi dall’abbraccio mortale delle tre sorelle. Ma sarebbe essa stessa al riparo dalle pressioni degli Stati membri?

STRUMENTO OBSOLETO ? –  A mio avviso oramai il rating rappresenta uno strumento obsoleto rispetto a condizioni e parametri che mutano velocemente. Basta pensare che i cds segnalavano già da sei mesi che la Grecia era a rischio solvibilità mentre le agenzie di rating hanno ridotto i loro numeri e lettere solo qualche settimana fa. Investire senza rating non è impossibile. Solo un po’ difficile. Si pensi agli investitori istituzionali che, nel far gestire i mandati di gestione alle Sgr, indicano specificamente i giudizi minimi sui titoli da inserire in portafoglio. Cosa deve guardare chi si sente tradito dalle agenzie di rating? I primi due indicatori sono ben noti: chi sceglie un titolo obbligazionario deve considerare con attenzione il rischio tasso e il rischio duration (quanti anni ci vogliono perchè il prezzo di un bond sia ripagato dal suo cash flow interno), tipici del mercato dei bond.  Il rendimento offerto da un emittente può rappresentare un’indicazione utile del rischio. Per esempio, è bene guardare la liquidità del titolo, ossia guardare se il titolo sia dotato di minimo spread tra denaro e lettera ossia tra chi acquista e chi vende. Se si intende rinunciare al rating, meglio sarebbe tenersi stretti invece gli outlook e i bias, emessi dagli analisti di mercato: sono indicazioni di tendenza utilissime per comprendere le potenzialità dell’emittente, nel suo contesto economico e finanziario. E collegato a quest’ultimo fattore, l’aspetto valutario: il +16% del dollaro sull’euro da inizio anno non può che riflettersi sul valore di un bond denominato in valuta Usa. Un’opportunità, ma anche un rischio da calcolare, se prima della scadenza del titolo la dinamica delle valute dovesse invertirsi. Se c’è una lezione che la recente crisi finanziaria lascia al pubblico degli investitori privati è quella di tenersi alla larga da titoli particolarmente complessi: bond subordinati, ad esempio, per non parlare di titoli strutturati presentano tecnicalità difficilmente gestibili anche per soggetti istituzionali.

LA VOLATILITA’ – L’ultima indicazione riguarda la volatilità dell’asset: un governativo brasiliano in euro ha buone potenzialità per spinta materie prime, ma può oscillare molto. Per gestirla si può abbassare la duration, ma si tratta anche di capire cosa si compra: le oscillazioni possono essere molto forti, come accaduto negli ultimi giorni ai titoli spagnoli o anche italiani. In epoca «fly to quality» la volatilità la fa da padrona; il rischio è trovarsi ad azzardare scommesse sui mercati, pensando invece di mettere i propri soldi al sicuro. Per questo, ed è l’ultimo consiglio, è meglio muoversi quando i mercati sono stabili.

Vincenzo Polimeno

Per info e suggerimenti: enzopolimeno@alice.it