E’ ritornato il sereno ma…..! La settimana che ci lasciamo alla spalle è stata caratterizzata da un’ottava positiva sui principali mercati finanziari internazionali spinti al rialzo dalla fiducia ritornata sull’ Eurozona e la discrea stagione delle trimestrali delle corporate Usa. Per ora è il trionfo dell’ottimismo come ci dimostrano Wall Street e le borse europee.
MERCATI E FINANZA. Ma qualcosa di diverso s’è avvertito in settimana e pare di scorgerlo nei cenni di fatica mostrati nei ritmi di crescita degli indici e più ancora in certe forzature escogitate dal mercato per mantenere quei ritmi. Dopo la scivolata di mercoledì (un -1% sbandierato come il peggior ribasso degli ultimi due mesi), il segno di queste forzature s’è visto nella seduta di giovedì, quando un’apertura negativa di Wall Street, che pareva afflitta dai cattivi risultati bancari, è stata quasi interamente ribaltata da un recupero finale che sembra essere stato generato unicamente dalla contemporanea discesa del dollaro.
Se si sovrappone il grafico minuto per minuto del future sull’indice S&P e quello del cambio euro/dollaro, si ritrova quella perfetta correlazione che aveva funzionato per parecchi mesi in passato e che s’era interrotta a dicembre. Il gioco s’è riproposto discretamente anche ieri. Le forzature diventano macroscopiche sui titoli bancari: perché a fronte di risultati decisamente peggiori delle attese mostrati dalle maggiori banche, l’indice di settore ha perso sì oltre il 2% mercoledì, ma ha chiuso quasi invariato giovedì, per salire dell’1,5% ieri dopo i disastrosi risultati di Bank of America. E che fa il titolo? Guadagna addirittura nel pomeriggio per chiudere con un ribasso dell’1%, come se le pesanti perdite nette della banca e l’utile operativo di appena 4 centesimi per azione nel trimestre (contro i 14 del consenso) fossero in linea con le attese.
E va anche notato che il settore è salito del 32% da settembre (contro il 23% dell’S&P) e che Bank of America è volata del 40% da inizio dicembre. Tuttavia, secondo quanto riportato dal New York Times nei giorni scorsi, dopo praticamente tre anni di stop per rimettere in sesto i conti, le banche statunitensi sono pronte a ricominciare a distribuire dividendi nella prima meta’ dell’anno. Sono apparsi migliori in linea generale i conti di alcuni colossi del comparto industriale. L’impressione è che gli investitori continuino a muoversi per tesi. E quella che a dicembre s’è aggiunta alla scommessa di una decisa ripresa economica (in buona parte corretta) è che le banche siano sottovalutate.
Già parecchi analisti americani osservano che capitalizzazioni inferiori al patrimonio, come esprimono alcune banche quotate a Wall Street (l’affannata Citi vale l’88% dei mezzi propri), siano ingiuste. Il discorso dovrebbe valere a maggior ragione per le banche italiane che capitalizzano, nella migliore delle ipotesi, la metà del patrimonio. E come vanno le banche italiane? Ovviamente peggio dell’indice settoriale europeo e pressoché in base alla percezione dei rischi sovrani in Europa, nonostante siano quelle con meno titoli (greci, portoghesi, irlandesi) in portafoglio. Il grafico del comparto di Piazza Affari appare, da fine marzo, una variabile dipendente dello spread tra Btp e Bund. Al di la’ dei risultati finanziari, tuttavia, in settimana l’attenzione e’ stata catalizzata anche dalla Cina, con la visita negli Stati Uniti del presidente Hu Jintao.
Il Paese asiatico si attesta ormai come seconda economia mondiale alle spalle degli Stati Uniti, sopravanzando il Giappone, in virtu’ di una crescita del 10,3% nel 2010, nonostante i tentativi governativi di raffreddare la corsa.
Al di la’ degli annunci concilianti da parte dei due presidenti e di una collaborazione futura, con la richiesta di Barack Obama di aggiustare il corso dello yuan, che per adesso rimane sottovalutato, in modo da consentire alle imprese di battersi ad armi pari sul mercato cinese, a scuotere i mercati sono stati i timori che la Cina possa adottare una politica monetaria piu’ restrittiva.
EUROPA. Passando ai numeri, i listini europei hanno chiuso quasi tutti in territorio positivo la settimana; infatti troviamo Parigi che con il suo Cac40 ha guadagnato lo 0,86% mentre Londra (-1,76%) e Francoforte (-0,19%) hanno rintracciato dopo il rally delle ultime settimane. A livello settoriale dobbiamo segnalare in denaro per la seconda settimana consecutiva il settore bancario (+5,76% rialzo dovuto alla fiducia circa la ripresa economica globale) seguito da quello utility (+4,32%) ed infine quello assicurativo (+3,27%) mentre in lettera dobbiamo segnalare il settore viaggi e tempo libero (-5,37%) seguito da quello automotive (-4,07%) ed infine da quello real estate (-2,84%). Fra i principali titoli dobbiamo segnalare in nero Bbva (+8,83%), Credit Agricole (+8,48%) ed Alstom (+7,20%), mentre in rosso dobbiamo segnalare Bayer (-5,50%), Nokia (-3,95%) ed infine Lvmh (-3,81%).
ITALIA. Piazza Affari chiude la settimana con un deciso rialzo del nostro indice, sospinto all’insu dagli acquisti sul comparto bancario sulla scia positiva delle trimestrali delle corporate bancarie americane che hanno fatto ritornare fiducia tra gli investitori ed aumentare la loro propensione al rischio. La settimana si è chiusa con un forte rialzo dello Ftse/Mib (+2,93%), terminando le contrattazioni a 22093 punti. Da un punto di vista tecnico il quadro è diventato positivo e fondamentale è stata la rottura dell’importante resistenza statica posta a 22000 punti dopo aver toccato nell’intraday anche un max a 22316 punti. Fondamentale sarà la tenuta di quota 22000 punti nonostante il forte ipercomprato che regna sul nostro indice che permetterà di proseguire il trend al rialzo ed attaccare la resistenza posta a 22600 che chiuderebbe il gap aperto ad aprile 2010 e proseguire verso i 22850; di contro solo il ritorno sotto i 21500 pregiudicherebbe quanto di buono costruito finora.
Oramai le nubi sembrano essere lontane ma a breve non escluderei un piccolo storno prima di ritornare a tirare al rialzo. Fra i titoli maggiori dobbiamo segnalare in denaro Buzzi Unicem (+12,60% rialzo dovuto al possibile aumento del prezzo del cemento e ad una possibile rotazione settoriale e si pensa che il settore abbia già toccato il fondo), Lottomatica (+9,81% spinta al rialzo per la firma di un contratto con la lotteria dell’Illinois della durata di 10 anni. La societa’ italiana prevede di incrementare le vendite della lotteria da 2,2 miliardi di dollari a oltre 4,5 miliardi di dollari nel 2016 e di far crescere i proventi dai 665 milioni di dollari del 2010 a 1,1 miliardi nel 2016) e Finemeccanica (+9,39% rialzo dovuto all’ entrata nel capitale dell’impero libico e per una nota diffusa in settimana dalla societa’ che indica per il 2010 un free cash flow e un livello di ordini ben superiori al target) mentre in lettera, invece, dobbiamo segnalare Fiat (-8,64% ribasso che ha interessato l’intero comparto), Exor (-5,95% ribasso dovuto al downgrade da parte di Soc. Generale che hanno abbassato la raccomandazione sul titolo da outperform a neutral) ed infine Bulgari (-4,51% ribasso dovuto alla notizia che il vicepresidente Nicola Bulgari ha venduto l 1,3% del capitale da lui detenuto).
AMERICA. L’equity-market americano è riuscito a mantenersi in alto, pur dovendo fronteggiare consistenti venti frontali derivanti da considerazioni grafico-tecniche, mentre sul trading-floor newyorkese si ipotizzava in settimana un rintracciamento tecnico fino a 1.250 punti per l’S&P500, con suddetto indice che alla fine è riuscito a proporsi comunque per un eventuale raggiungimento della soglia psicologica dei 1.300 punti.
La zona tra 1.300-1.313 punti costituisce una prima resistenza, per poi andare a valutare il livello di 1.361 punti. Sulla parte bassa il primo punto di riferimento è il minimo intra-settimanale toccato a 1.271, dopo il quale considerare la media-mobile a 50-giorni ascesa a 1.239 punti. Il dollaro-debole ha sostenuto le quotazioni mentre i tassi hanno provato a spingersi in alto. Equity americano, tassi e dollaro, sembrano variabili molto interrelate tra loro, soprattutto all’ingresso diquest’ottava in cui a parlare sarà la Federal Reserve, in occasione del FOMC del 26 gennaio. A guardare semplicemente le performance, il 2011 è iniziato con l’equity in salita, il Dollar Index in discesa ed i tassi in rialzo.
La partita ovviamente, partendo dal presupposto che il rischio finanziario sistemico a monte di tutto per gli USA sia stato narcotizzato dall’approccio ripetuto aconvenzionale alla politica monetaria da parte di Bernanke, si gioca sul fronte inflattivo. Il rischio corso sarebbe stato quello che una cannibalizzazione sul mercato dei capitali delle risorse finanziarie ad opera dei governi e ai danni dei privati potesse innescare un rialzo del costo del denaro troppo veloce stroncando la ripresa sul nascere ed annullando gli effetti moltiplicativi.
I limiti dei modelli keynesiani d’altronde erano legati all’idea che essi tendano a funzionare allorquando si sottostimi l’inflazione, potendo avere come effetto collaterale quello di tradursi in stagflazione. In uno stadio iniziale di queste politiche friedmaniane e keynesiane, grazie alla trappola di liquidità che il credit-crunch aveva innescato, inducendo i saving-rates a salire considerevolmente ed il mercato ad accontentarsi di tassi bassi pur di non vivere i timori di default, i rischi di immediati rialzi delle aspettative inflazionistiche troppo decisi sembravano sopportabili dando ex-ante maggiori probabilità che le azioni keynesiane avessero successo. Tuttavia il quadro globale e quello interno offrono più spunti per temere l’inflazione, alla luce anche della reiterata negazione da parte della PBOC nell’accettare un rilascio del peg-sporco di dollaro-yuan, muovendosi espansivamente sul fronte monetario a ritmi di 200 miliardi di dollari su base trimestrale a monte.
LE VALUTE. Il “debasing” del dollaro, esercitato per ingenerare anche un cedimento del dollaro-yuan, ha fatto impennare i prezzi delle materie prime. Lungi dall’immaginare che il processo di “pass-through” inflazionistico (trasmissione a valle) possa avvenire in modo semplicistico e squisitamente per induzione naturale, e non dando per scontata la capacità d’imposizione del pricing-power a valle della catena macro ad opera dei CEOs societari, la constatazione di un rally delle materie prime da giugno 2010 ad oggi del +35% è tale da lasciar presupporre che i parametri inflazionistici possano risultare più alti nel prosieguo dell’anno anche negli USA.
E mentre i Leading Indicators continuano ad indicare la direzione verso l’alto, il flusso delle trimestrali ha confermato la bontà reddituale che avvolge al momento la Corporate-America, sebbene i titoli finanziari in diversi casi abbiano prodotto EPS inferiori alle stime, confermando comunque la capacità di assicurarsi net-profits consistenti. L’attuale movimento dei mercati è incastonato in un percorso in cui sembra esserci spazio per proseguire a condizione che le società appartenenti al sistema bancario americano di grosso calibro, in un modo o nell’altro, riportino utili sempre e comunque. Il rischio sistemico, nato con la crisi dei mutui subprime, è stato sedato negli ultimi trimestri grazie alle trimestrali delle banche americane capaci di risalire la china sotto il profilo reddituale, cercando di rateizzare i write-offs, processo questo che dovrebbe continuare in futuro migliorando la qualità del credito.
GIAPPONE. Questa settimana è stata all’ insegna della lettera per il Nikkei225 (-1,50%) trainato al ribasso (10355,04) per l’apprezzamento della moneta unica, per la decelerazione dell’indice borsistico legato ai titoli export ma soprattutto per i timori legati all’inflazione galoppante che potrebbe interessare la Cina e alla conseguente politica restrittiva che potrebbe ripercuotersi anche sull’ economia del Sol Levante.
MATERIE PRIME. Nell’ultima settimana, più “corta” del solito, per la festività del Martin Luther King Day osservata negli Stati Uniti il mercato delle materie prime ha continuato a muoversi in territorio positivo. I best-performers della settimana sono stati il cotone (+10,96%), il grano (+6,63%), il gas naturale (+5,71%), il cacao (+5,47%) e lo zucchero (+4,66%). Le vendite hanno interessato principalmente il mercato dell’oro (-1,43%), dell’alluminio (-2,01%), del rame (-2,35%), del petrolio (-2,65%) e dell’argento (-3,15%). Il mercato delle commodity quest’anno potrebbe continuare a beneficiare della più che positiva intonazione del ciclo economico dell’area ASIA-PACIFICO e dei segnali di ripresa, seppure meritevoli di conferma, provenienti da alcuni Paesi occidentali, lì dove l’operato delle banche centrali e dei governi per combattere la crisi ha iniziato a farsi sentire nel tessuto economico reale.
PETROLIO. Il petrolio al Nymex, nella settimana tecnica del rollover del primo contratto-future in scadenza (da quello con consegna febbraio ’11 a quello con consegna marzo ’11), si è mosso nell’intervallo di prezzo 88,00 $ – 92,10 $ per poi attestarsi a quota 89,11 $ al barile, in calo di oltre due dollari, per un -2,5% da inizio 2011. L’operatività della settimana è stata influenzata dal rilascio da parte dell’IEA delle nuove stime di crescita della domanda mondiale, dalla chiusura di quattro piattaforme Shell nel Mare del Nord e dalla riapertura parziale di quelle dell’Alyeska Pipeline Service Co. Secondo diverse case d’affari internazionali il petrolio dovrebbe nel 2011 muoversi mediamente nell’arco dei 90-100 dollari al barile dopo i 79,61 $ del 2010.
Nell’ultima settimana il primo contratto-future in scadenza sull’oro si è attestato al Comex a quota 1.341 $/oz, in calo di venti dollari.
OBBLIGAZIONARIO. Osservando l’evoluzione del mercato obbligazionario europeo si ha la sensazione che esso stia cercando di metabolizzare quello che sembra un cambio di passo in seno all’approccio verbale della BCE sulla scia delle sempre più evidenti spinte dinamiche inflazionistiche. In realtà suddetta presa d’atto da parte della Banca centra le europea è piuttosto tardiva, essendo il movimento inflazionistico in corso già da diverso tempo e riguardante soprattutto i beni di prima necessità. Il fatto che il principale indice delle materie prime ex-energy presenti un ritmo di crescita più eleva to di quello dei prezzi al consumo è fuori discussione nell’ambito di un processo di “debasing” del dollaro che appare evidente sui mercati finanziari.
La BCE deve per forza di cose prendere atto dei maggiori rischi inflattivi, ed in particolar modo, le autorità tedesche, che finora con molta superficialità hanno avallato un trend ribassista dell’euro -dollaro, devono constatare che il nazionalistico approccio valutario, che ha visto il dollaromarco spingersi fino a 1,52, potrebbe rivelarsi deleterio se perseguito oltre certi livelli. Il processo di restringimento degli spread di tasso passa attraverso un rafforzamento dell’euro -dollaro. Sui titoli di stato tedeschi l’attenzione si è concentrata soprattutto sul tasso a 10-anni che dopo nove mesi ha violato verso l’alto la soglia del 3,07% innescando un ulteriore sell-flow che gli ha permesso di guadagnare 15 bps attestandosi al 3,18%.
I RENDIMENTI. La curva dei rendimenti in Germania anche questa settimana si è spostata verso l’alto: il 2-anni (1,29%) è salito di 14 bps, il 5- anni (2,34%) di 17 bps e il 30-anni (3,57%) di 11 bps. Il buon esito delle aste dei titoli di Stato in Grecia, Spagna e Portogallo accompagnato da un calo dei tassi ha stemperato la pressione sul mercato obbligazionario: si è ristretto il differenziale di rendimento tra il Bund e i titoli di Stato decennali della periferia europea. Per il Portogallo lo spread si è attestato a 371 (-8 bps), per l’Italia a 154 (-9 bps), per la Spagna a 203 (-27 bps). In rialzo invece quello della Grecia a 813 (+5 bps) e dell’Irlanda a 561 (+12 bps).
Il mercato obbligazionario statunitense ha finito per fluttuare in basso durante la settimana. I titoli di stato a 2-anni rendono lo 0,63%, con quelli a 10-anni a 3,43% e con i temi trentennali a 4,59%. Il recente environment micro-macro si sta distinguendo negli USA per una più accentuata percezione di crescita, accanto alla quale si sta affiancando una dinamica inflazionistica che appare alquanto corposa. Il cruscotto macro dei parametri ciclici si contraddistingue però da un lato per la forza ascendente di indicatori quali quelli del consumerspending, del business-spending, dell’import/export e della produzione industriale, e dall’altro per un contesto più statico del settore immobiliare interno, mentre l’S&P-CaseShiller Home Price Index è riuscito finora ad ottenere una lateralizzazione sui bassifondi, dopo una contrazione di circa il 30% dai suoi livelli di top.
INFLAZIONE. Sul fronte inflattivo invece, escludendo gli indicatori immobiliari, che comunque rivestono un peso consistente nel monitorare le inclinazioni inflazionistiche di un sistema economico, l’inflattivo trend degli ultimi mesi ha cancellato in molti casi i gap deflazionistici creatisi sui grafici per via del credit-crunch, facendo intonare al rialzo i parametri che fanno tracking delle dinamiche dei prezzi. Le autorità di politica economica stanno valutando la necessità che il riproporsi in vortice della dinamica inflazionistica nel volano di produzione-consumo possa produrre radiazioni reflattive anche nello spento housing-market, che per ora è riuscito a muoversi lateralmente arrestando la sua caduta in termini di valore. Tuttavia l’espansività friedmaniana offerta dalla FED, di pari passo con l’inflazionistica politica valutaria della PBOC, stanno oleando monetariamente l’incedere del ciclo USA e globale, al punto da mantenere i TIPS a 5-anni in territorio negativo.
I TIPS a 5-anni hanno chiuso l’ottava a -20 basis points, evidenziando che sulla base delle aspettative inflazionistiche nutrite dai mercati finanziari i tassi a breve-termine della curva americani non consentano di proteggere lo spending-power dei capitali in essi investiti dalle dinamiche inflazionistiche. Per quanto i livelli dei TIPS possano essere figli di logiche meramente finanziarie che esulano dal contesto effettivo, un valore medio di un TIPS a 5-anni sulla base delle fluttuazioni dal 1997 ad oggi si attesta a +209 basis points.
Ed anche immaginando un crollo verso il basso del dollaro yuan il treasury-market potrebbe essere pensato soltanto come un’arena finanziaria capace di preservare il valore nominale dei capitali, mentre il radicale valore del dollaro ad esso sottostante possa essere messo in discussione sulla base del dipanarsi degli eventi internazionali e secondo molti degli approcci alle teorie valutarie. I valori nominali dei treasuries in settimana saranno influenzati dalle parole della Federal Reserve, che dovrebbe lasciare invariato il livello dei Fed-Fund-Rates.
Interessante sarà cercare di capire se anche la FED, alla stessa stregua della BCE, vorrà mutare il proprio cruscotto verbale, ravvisando una più che lapalissiana maggiorata inflazione proprio nelle componenti di prima necessità di un sistema economico, vale a dire quelle alimentari ed energetiche, da cui non si può prescindere semplicemente mutandone la percezione di discrezionalità. Sarebbe un atto teorico dovuto, salvo assistere ad un dietro-front delle commodities, premesso che la FED fino a giugno continuerà ad esercitare il QE2, finchè non vedrà calare l’elevato unemployment-rate.