Nel momento in cui dobbiamo prendere delle decisioni, anche d’acquisto, entrano in gioco non uno ma ben tre cervelli, in competizione tra loro: quello antico, che si occupa della sopravvivenza biologica (potremmo definirlo il “predatore”); quello limbico o emozionale, grazie al quale siamo in grado di intessere rapporti sociali; quello recente o neocorticale, sede della coscienza e della razionalità, che permette di apprendere, leggere…
Per affrontare la quotidianità, i cervelli adottano delle scorciatoie che, se da un lato velocizzano le operazioni rendendole meno faticose e dispendiose energeticamente, dall’altro sono esposte a errore. Esaminiamo due delle “distorsioni” più diffuse: l’avversione alle perdite e l’effetto cornice.
Una delle domande più diffuse che ricevo durante i miei corsi di “NeuroSync Selling” è: “Perché dovrebbe interessarmi uno studio così approfondito del cervello? Io sono un venditore, mica un neurologo!”.
E se da un lato la domanda appare legittima, visto che ognuno deve possedere le giuste conoscenze per il corretto impiego professionale, dall’altro lato mette in evidenza un’evidente asimmetria: mentre il neurologo potrebbe vivere e prosperare senza dover studiare le tecniche di vendita e di copywriting, visto che non sono funzionalmente necessarie per raggiungere il suo scopo (sorvolando sul fatto che persino gli specialisti, privati s’intende, oggi utilizzano un minimo di brand marketing per aumentare la loro “base clienti”), il venditore esperto non può oggi prescindere dal conoscere cosa realmente accade nel cervello del suo potenziale cliente (prima ancora che nella sua “mente”).
La vendita sincronizzata sulle esigenze “neurali” del cliente (da cui il nome del metodo NeuroSync Selling) è oggi, molto semplicemente, un obiettivo raggiungibile grazie al corpus di conoscenze che possediamo e che sono alla portata di (quasi) tutti. Quando iniziai io stesso a vendere e a tenere corsi alle reti vendita, nel 1994, le scoperte neuroscientifiche non erano così accessibili ed era dunque logico procedere in modo empirico, dando retta ora a questo ora a quell’altro “guru”, che diceva sostanzialmente: “Visto che ce l’ho fatta io, fate come me e ce la farete anche voi!”.
Oltretutto, alla base del cambio di approccio verso la comprensione delle persone c’è un modello, quello del cervello “trino” (i tre cervelli), che risale alle intuizioni di MacLean, sul finire degli anni ’50.
Il neuroscienziato identificò tre “cervelli”, figli di una lenta ma efficace evoluzione.
Il cervello rettile
Cervello rettile, il più “antico” cervello umano, che garantisce le funzioni basiche della nostra sopravvivenza e che è in grado di svolgere compiti come qualsiasi altro rettile, ovvero adattarsi all’ambiente territoriale, procacciare cibo, riprodursi, reagire alle minacce con il tipico schema combattimento-fuga e, naturalmente, presiedere alle funzioni base della sopravvivenza biologica (muscoli involontari, gestione sonno e temperatura e altre reazioni automatiche di adattamento).
É il cervello che ci rende simili a “predatori”, pronti a rispondere a stimoli istintuali e pulsioni di base. Ma è “lontano anni luce” dal saper valutare una brochure che spiega un fantastico prodotto o un rassicurante servizio!
Il cervello limbico
Cervello (sistema) limbico, ovvero, come scrisse lo stesso MacLean, è “il cervello paleomammaliano, o sistema limbico, nato come progresso dell’evoluzione del sistema nervoso perché è un dispositivo che procura agli animali che ne dispongono mezzi migliori per affrontare l’ambiente. Parti di esso concernono attività primarie correlate col nutrimento e il sesso; altre con le emozioni e i sentimenti e altre ancora collegano i messaggi provenienti dal mondo esterno con quelli endogeni”.
Questa versione evoluta del tronco encefalico ci ha permesso di godere di una ricca gamma di emozioni “evolute”, di adattarci sempre meglio all’ambiente e soprattutto di creare le più ricche interazioni sociali: non a caso viene anche denominato il “cervello sociale” nella storia evolutiva dell’uomo. É anche la sede degli affetti, dell’attaccamento e del prendersi cura di altri essere viventi, oltre che di se stessi. Se il cervello rettile rappresenta il “predatore” che è in noi, questo può allora tranquillamente rappresentare la parte in cui vive e prospera il nostro “bambino interiore”.
É il cervello che influenza, tra le altre cose, la percezione di simpatia e antipatia e che si lascia coinvolgere solo se le parole di marketing hanno il potere di risvegliare una qualsivoglia risposta emotiva: se il cliente non ha stimoli limbici, il suo coinvolgimento nel processo di acquisto è prossimo allo zero. Il che, nelle vendite, si avvicina alla famosa, o meglio famigerata, frase: “Ho compreso l’importanza e la convenienza, ma ora non me la sento di effettuare l’acquisto!”
Il cervello neocorticale
Finalmente arriviamo al vertice del percorso evolutivo del nostro cervello: il cervello neocorticale (neocortex), sede del più grande ed elaborato computer esistente in natura! “Noi dobbiamo il pensiero cosciente alla neocorteccia: è la sede dell’autocoscienza, delle concezioni dello spazio e del tempo, delle connessioni di causalità e di costanza”, ha affermato qualche anno dopo lo stesso MacLean, evidenziando le parole chiave della neocorteccia nella nostra vita: coscienza, consapevolezza, razionalità e cognizione.
Possiamo anche accostare, come analogia, questo cervello alla parte adulta di noi, al computer razionale o, se amate la serie di fantascienza Star Trek, il vostro Dr. Spock interiore, il vulcaniano freddo ma super razionale presente in plancia dell’astronave Enterprise.
Grazie alla neocorteccia compiamo i miracoli della “cognizione”: impariamo, analizziamo, creiamo connessioni logiche e deduttive, collochiamo le cose nello spazio e nel tempo, dando luogo a quello che potremmo, in termini più “funzionali”, definire il cervello cognitivo.
Verrebbe da dire, a questo punto, che se siamo così evoluti da avere oggi ben tre cervelli anziché uno solo dovremmo aver rasentato ormai la perfezione intellettuale! In realtà è l’esatto opposto: i tre cervelli dialogano spesso in modo conflittuale, possedendo ognuno un suo “schema operativo” e molto spesso a farne le spese sono le nostre “decisioni”, che diventano oggetto di distorsioni, anziché di una triplice abilità di ragionare!
Il cervello (come trino) deve compiere continuamente scelte e scremature, poiché riceve troppi stimoli da troppe parti e troppo spesso… perciò cosa fa per difendersi? Costruisce schemi e scorciatoie, veri acceleratori di processo, in grado di arrivare prima a formulare una “decisione” (o ad altro obiettivo naturalmente). La cosa in sé è fantastica ed efficace, se non fosse per un piccolo difetto: queste scorciatoie sono sempre più assimilabili a vere e proprie “distorsioni”, chiamate anche bias cognitivi; Wikipedia li definisce “giudizi (o pregiudizi) che non corrispondono necessariamente alla realtà, sviluppati sulla base dell’interpretazione delle informazioni in possesso, anche se non logicamente o semanticamente connesse tra loro e che portano dunque a un errore di valutazione o mancanza di oggettività di giudizio”.
Non è questa la sede più opportuna per analizzare tutti i bias mentali, ma si può di certo arrivare al cuore del ragionamento: per una vendita “sincronizzata” con il reale funzionamento del cervello umano bisogna conoscerne non solo le funzioni e lo schema operativo, ma anche (e soprattutto) le dinamiche distorsive, da cui nascono le decisioni (incluse quelle d’acquisto).
Mettiamo in evidenza uno dei bias più importanti di qualsiasi decisione umana, che si tratti di capire dove portare i figli a scuola o che prodotto acquistare: l’avversione alle perdite.
Se i tre cervelli fossero sempre in grado di lasciare il compito a quello dei tre più adatto, avremmo probabilmente meno distorsioni nel compiere scelte, ma gli studi dimostrano ampiamente che le cose non stanno affatto così. È proprio il lavoro congiunto delle varie aree cerebrali a creare la nostra straordinaria ampiezza di comportamenti e, allo stesso tempo, la notevole presenza di inquinamenti razionali.
Un esempio pratico: immaginate di dover far fronte a una malattia virale che potrebbe causare la morte di 6.000 persone. Vi convocano e vi propongono due soluzioni alternative, corredate dalle stime scientifiche delle conseguenze così dichiarate:
• con il sistema A verranno salvate 2.000 persone;
• con il sistema B ci saranno 1/3 di probabilità che 6.000 persone vengano salvate e 2/3 di probabilità che però non si salvi nessuno.
Cosa fare, che sistema scegliere?
La risposta più diffusa negli esperimenti è stata la A (la soluzione con esito sicuro), ma è davvero razionale come scelta? Eppure stiamo scegliendo di condannare a morte 4.000 persone!
La risposta B evidenzia in modo più netto la “perdita” di vite umane nella sua “cornice” di riferimento decisionale, ponendo al contempo l’opzione (1/3 di probabilità) di salvare tutti. Eppure è sufficiente il dato sulle perdite per far scattare la naturale avversione emotiva alle perdite poiché, come è emerso dalle ricerche, il “framing effect” (o effetto cornice) gioca proprio lo scherzo di distorcere le capacità decisionali razionali, portandoci a evitare il rischio quando la cornice di riferimento mette in evidenza i guadagni e a fuggire invece da esso, quando ci prospettano in evidenza le perdite.
Cosa significa in termini di marketing e vendite?
Significa che il modo in cui “prospettiamo” gli scenari, stabilendo in che “frame” collocare le riflessioni del cliente, influenzerà pesantemente il suo processo decisionale.
La distorsione in gioco in questo caso è nota come avversione alle perdite e afferma, in base ai risultati delle ricerche, che le perdite pesano psicologicamente ed emotivamente più dei guadagni, anche a parità di cifra vinta o persa. Se a questa uniamo l’effetto “framing”, lo scenario decisionale posto davanti alla mente del cliente è già ricco di possibili “complicazioni” (utili per chi sa “sincronizzare” la sua vendita a tali bias cognitivi naturalmente).
Per chiudere diamo un ultimo colpo alle sin troppo note velleità del marketing: l’offerta immensa data al consumatore. Sembra che per anni gli addetti al marketing si siano persuasi che se il cliente non comprava era perché aveva poche scelte e dunque è stata percorsa una strada, oggi a dir poco pericolosa: amplificare al massimo ogni possibilità di scelta del consumatore.
Ed eccoci davanti ai risultati dell’esperimento delle marmellate (Lyengar e Lepper, 2000): dopo aver disposto due tavoli, uno con 6 tipi e l’altro 24 tipi diversi di marmellate, ci si accorse che il 60% dei passanti si avvicinava alla bancarella con 24 marmellate, mentre soltanto il 40% al tavolo con 6 scelte.
Risultato negativo dunque per il tavolo “scarso”?
In apparenza… Ecco cosa accadeva, infatti, alla cassa: solo il 3% acquistava una marmellata fra le 24; mentre nel tavolo con “bassa scelta” il 30% ne comprava almeno una fra le 6!
Perché il cervello “si comporta così”?
Perché ancora una volta la complessità del sistema “trino” ci ha costretto, nei secoli di adattamento, a cercare schemi operativi pratici e a basso costo cognitivo, mentre l’eccesso di scelta, di attributi, di dettagli va nella direzione opposta, generando un eccesso di costo cognitivo da sopportare!
Nel mindset del venditore di oggi non può dunque mancare lo studio del funzionamento della macchina più complessa e articolata del pianeta, soprattutto perché le conoscenze oggi accessibili permettono di compiere un vero e proprio salto quantico nella creazione di sistemi di marketing e vendite realmente “a misura di mente umana”.